Month: October 2019

Le cure della pelle nella formazione dell’Io

Introduzione

La pelle rappresenta il limite invalicabile del “personale” in senso stretto. Essa è “personale” nella misura in cui la sensibilità alimenta il mondo della persona, con la percezione degli oggetti fisici, con la percezione del mondo rappresentativo, e con le coloriture affettive (e perciò sensibili) che queste percezioni comportano. La pelle è, quindi, il luogo in cui l’Io incontra il mondo esterno, “diventando” in parte questo e differenziandosi da questo.

Lo sviluppo del senso di separatezza e la personificazione del soggetto, tuttavia, non sono eventi tutto-o-nulla che si verificano immediatamente dopo la nascita e che si manifestano nel pieno delle loro caratteristiche sin da subito. Le qualità e le funzioni dello psichismo della persona, infatti, devono attraversare un percorso che inizia con il non-differenziato. All’origine della vita, lo psichismo ancora non esiste in modo completo e integrato, ma si presenta in uno stato in cui fisiologia e psicologia non si sono ancora differenziate, e in uno stato di simbiosi con l’ambiente maternale. In queste dinamiche di cura, in cui la madre, facilitata dall’identificazione con i bisogni del piccolo, risponde in maniera adeguata, assumono un rilievo fondamentale gli scambi di “contatto”.

L’importanza del contatto, e perciò della pelle, tra madre e figlio è stata sottolineata da vari autori, i quali hanno evidenziato, a vario titolo, il ruolo che questo gioca nella costituzione dello psichismo. Gli sviluppi post-freudiani della psicoanalisi, infatti, hanno visto l’impegno di moltissimi autori (Klein, Bion, Winnicott, Bowlby) non più sul fronte della relazione edipica, quanto sulla relazione primaria che lega la madre e il neonato. La configurazione dell’apparato psichico edipico, infatti, è l’esito (non scontato) di questa relazione, che avviene nell’ambiente maternale il quale, oltre a quello strettamente materno, include anche il contesto più ampio che la sorregge e che, eventualmente, ne fa le veci. Nella considerazione di questo processo evolutivo, gli autori hanno rimesso in discussione alcuni assiomi psicoanalitici, come la centralità della pulsione sessuale e la sua organizzazione in tappe, per far risaltare una pulsione che appare più originaria o, quantomeno indipendente: la pulsione di attaccamento.

L’obiettivo di questo breve scritto è quello di sottolineare il ruolo che le cure della pelle rivestono per la formazione dell’Io. Verranno, quindi, proposte le riflessioni di tre autori, i quali hanno messo in luce l’importanza della relazione tra il corpo del caregiver e quello del bambino come luogo di appoggio primario per la costruzione del funzionamento psichico, sia sano che patologico. Il lavoro vuole sottolineare una linea di continuità tra la tendenza all’attaccamento e alla ricerca di un contatto con il caregiver, il legame corporeo che in questo attaccamento si sviluppa e il primato che la pelle riveste in qualità di appoggio per la creazione di “immagini” che faranno da base ad alcune funzioni dell’Io. Dunque, dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby, il lavoro prenderà in considerazione le cure di contatto madre/bambino fondamentali per il Sé evidenziate da Winnicott, per terminare con l’approfondimento del ruolo della pelle nell’Io in formazione proposto da Anzieu. Il tema generale, pertanto, è la rilevanza del corpo e, in particolare, della pelle, all’inizio del funzionamento e della strutturazione dell’Io psichico.

Il contatto nella teoria dell’attaccamento.

La teoria dell’attaccamento proposta da Bowlby si costruisce sull’osservazione degli effetti che ha la deprivazione materna e sull’importanza di una pulsione al legame con questa che si evidenzia come indipendente dal soddisfacimento della pulsione parziale orale sottolineata dalla psicoanalisi.

Osservazioni fondamentali per la costruzione della teoria dell’attaccamento furono quelle di Harlow sulle scimmie Rhesus. Harlow elaborò degli esperimenti nei quali venivano confrontati i comportamenti di scimmie poste in contatto con un simulacro di metallo rappresentante la madre. I simulacri erano di due tipi: uno con il biberon, ma senza pelliccia, e uno senza biberon, ma coperta di una stoffa morbida, spugnosa e pelosa. A dispetto della presenza del biberon, e quindi dell’oggetto atto a soddisfare la pulsione parziale orale, i piccoli di scimmia mostravano una preferenza per il simulacro ricoperto di pelliccia.

Hermann sottolinea come per i piccoli di mammifero sia attiva una pulsione di aggrappamento al pelo della madre volta a procurare sicurezza. Questa pulsione risulta oltremodo ridotta negli esseri umani, nei quali la superficie del corpo ricoperta di peli si limita al cranio, alle zone intorno agli orifizi corporei del volto e al tronco. Nella specie umana, la pulsione di attaccamento assume un’importanza centrale: l’assenza di pelliccia spinge verso la ricerca di un tipo di contatto differente, quello pelle a pelle.

Bowlby definisce l’attaccamento come un legame affettivo rivolto a una persona specifica e non intercambiabile, di natura persistente e non transitoria e dotato di significatività sul piano affettivo. L’attaccamento è una disposizione innata, essenzialmente stabile durante il ciclo di vita, che si manifesta attraverso dei comportamenti di attaccamento, messi in atto per ricercare la prossimità del caregiver dal quale il bambino deriva sicurezza e protezione. La funzione biologica, quindi, è quella della protezione dai pericoli che non possono essere ancora affrontati, a causa dell’immaturità, finalizzata alla sopravvivenza. Il sistema di attaccamento si attiva in situazioni di stress, e fa mettere in atto tutta una serie di comportamenti atti a ridurre o eliminare la distanza dalla figura di attaccamento. Secondo Bowlby, il comportamento di attaccamento corrisponde ad un sistema comportamentale, ossia ad un’organizzazione psicologica interna che comprende sia schemi di rappresentazione del sé e della figura di attaccamento, sia schemi comportamentali che hanno radici biologiche, differenziati da quelli che regolano il comportamento alimentare, sessuale e di esplorazione. I comportamenti di attaccamento del piccolo vengono modulati dallo schema comportamentale dei genitori, i quali hanno il compito di creare un clima di serenità e disponibilità affinché ogni esigenza del bambino possa essere espressa nella sicurezza di trovare risposte adeguate e non eccessivamente dilazionate nel tempo. Un atteggiamento positivo da parte dei genitori fornisce ai figli quella che Bowlby chiama base sicura, che incoraggia all’esplorazione e all’autonomia. Il bambino i cui genitori hanno fornito una base sicura di attaccamento, vivono un sentimento di presenza e disponibilità della figura di attaccamento che gli consente di esplorare il mondo esterno nella fiducia di ritrovare il genitore al ritorno. Il ruolo delle figure di attaccamento che forniscono una base sicura consiste nell’essere disponibili, pronte a rispondere quando chiamate in causa, per incoraggiare e dare assistenza, ma intervenendo attivamente solo quando è necessario.

Le relazioni di attaccamento vengono interiorizzate in Modelli Operativi Interni, ossia modelli rappresentativi delle figure di attaccamento, di sé, e delle relazioni tra sé e le figure di attaccamento, che sono stati costruiti in base alle esperienze delle interazioni precoci con quelle figure. Queste prime rappresentazioni di sé e degli altri significativi e delle reciproche interazioni assumono un valore regolativo e predittivo per le future interazioni e modalità di percepire sé e gli altri in generale.

Durante la relazione di attaccamento, quindi, lo psichismo del neonato si sviluppa in dipendenza delle cure fornite dalla madre (e dall’ambiente in generale che accoglie la diade). Il bambino piccolo esperisce tutta una serie di bisogni, che vive nei termini di uno stato di tensione, i quali esigono un intervento dall’esterno al fine di essere placati. Nel tempo che intercorre tra l’esperienza della tensione e la soddisfazione del bisogno, si crea uno spazio psichico atto ad accogliere la venuta dell’oggetto-madre: la fantasmatizzazione primaria. Mentre questo fenomeno è sempre presente, il presentarsi della risposta materna non è ovvio. Una relazione in cui la madre anticipa la risposta ai bisogni del piccolo, sostituendosi alla sua psiche, soffoca l’apertura dello spazio mentale necessario ad accogliere l’oggetto-madre e, tramite esso, il mondo esterno. In modo analogo, ma con effetti diversi, una madre che risponde in modo altalenante o in tempi troppo lunghi, altera lo spazio mentale, che risulta frammentato, così come l’Io del bambino, il quale vivrà un’angoscia abbandonica, data dall’incertezza del presentarsi della madre.

Nella dinamica dei bisogni, delle attese e delle soddisfazioni si gioca la costruzione dello psichismo. I bisogni, come detto, non si limitano al percorso di appoggio della libido sessuale sulle diverse zone erogene, ma investono primariamente la relazione in se stessa, in quanto unico luogo possibile della sopravvivenza. È merito di Bowlby l’aver posto l’accento sull’importanza della pulsione di attaccamento, distinta da quella sessuale, nella costituzione dello psichismo della persona. La pulsione di attaccamento, che l’uomo condivide con diverse specie animali, si espleta primariamente come legame di “contatto”, di prossimità, di corpo. Durante il primo periodo post-natale la pulsione di attaccamento rende possibile, coadiuvata dalla “preoccupazione materna primaria”, l’attuazione delle cure della madre/caregiver verso il figlio. Queste cure sono effettuate primariamente attraverso gli stimoli tattili e interessano il corpo del piccolo: il sorreggerlo, il manipolarlo e la proposizione del mondo. È in questa relazione anzitutto corporea che trova fondamento la strutturazione del Sé del bambino. La pelle, in questo contesto, rappresenta il luogo privilegiato degli scambi tra i due partner, ed è la base, grazie alle sue funzioni, delle funzioni che saranno poi fatte proprie dall’Io.

Il Sé sorretto e manipolato: Winnicott.

Durante la relazione di attaccamento si ha tutto quel complesso di interazioni, rimandi, domande, risposte tra i partecipanti, che dà luogo alla strutturazione dell’apparato psichico del piccolo. È infatti in essa che il bambino esprime i suoi bisogni, richiamando la presenza della madre e aprendo, nell’attesa della risposta, lo spazio psichico per accogliere l’oggetto-materno e, con esso, la possibilità di una realtà altra da sé. In questa relazione, quindi, si determina la costituzione dell’Io, con le qualità che gli sono proprie di esame di realtà, di difesa dall’angoscia, di tolleranza della frustrazione, di controllo degli impulsi, eccetera.

Le prime fasi della relazione di attaccamento, tuttavia, sono caratterizzate da un legame che è totalmente somatico, in una continuità modificata con la vita intrauterina. Il neonato si trova “avvolto” dalle braccia e dal corpo della madre così come lo era dal liquido amniotico. Il bisogno della prossimità, dell’attaccamento durante tutto il ciclo di vita sembra richiamare la necessità di sentire sempre operante il contatto con la pelle della madre. L’esperienza di tale contatto, e dei contatti di sostegno e di manipolazione, assume il valore psichico, quando introiettato come base sicura, di un mantello protettivo. La protezione psichica è quella dalle angosce di base, ma anche dalle evenienze che presenta la realtà: il mantello-pelle, quindi, sembra avere, in sé alcune caratteristiche che si ritroveranno poi nell’Io.

L’ambiente maternale accoglie il neonato primariamente attraverso la madre. Questa, sebbene figura non strettamente indispensabile alla sopravvivenza e allo sviluppo psichico, è dotata di uno strumento in più per relazionarsi con l’Io nascente del piccolo: la preoccupazione materna primaria. Grazie a questa condizione biologico-psicologica la madre è facilitata nell’identificazione con i bisogni del piccolo, ai quali può rispondere in maniera adeguata. Winnicott ha posto l’accento sul ruolo che svolge la madre reale, e non solo quella fantasmatica, nelle cure del piccolo che portano ad un sano sviluppo dello psichismo. Il concetto di preoccupazione materna primaria è la controparte di un’unità data dalla madre e dal bambino, la quale si caratterizza, specialmente nelle fasi iniziali, come un’unità di pelle. Infatti, ogni contatto, ogni scambio, è fornito dalla pelle dei due partecipanti, esperienza che l’Io in nuce del neonato non distingue come contatto “tra” sé e altro, ma che vive come “inderivata”. Secondo Winnicott, il neonato vive la primissima relazione in uno stato di dipendenza assoluta, ossia uno stato in cui l’infante non ha nessuna nozione delle cure materne, in cui esprime dei bisogni senza avere il controllo sul loro soddisfacimento. È compito della madre identificarsi con tali bisogni e rispondere ad essi in modo adeguato. Il piccolo vive un’esperienza di onnipotenza che gli fa vivere la madre che placa i suoi bisogni come indistinta da sé. La madre deve fornire al piccolo un contesto in cui il seno/soddisfazione giunga proprio nel momento in cui il bisogno si manifesta, in modo cioè che esso sia sotto il suo controllo magico. Le risposte adeguate, nelle modalità e nei tempi, permettono al piccolo di preservare il suo stato di continuità dell’esistenza. La continuità dell’esistenza deve essere preservata al fine di far sviluppare la naturale tendenza all’integrazione dell’Io inintegrato del neonato. La devozione della madre, in questa fase, è ricompensata dal fatto che il processo di sviluppo dell’infante non viene distorto.

La condizione di dipendenza assoluta cede il passo a quella di dipendenza relativa, in cui l’adattamento totale della madre cede il posto ad una relazione che introduce elementi di frustrazione. Il de-adattamento di questa fase è effettuato dalla madre in maniera graduale e calibrata in base alla rapidità degli sviluppi manifestati dall’infante. Questa “calibrazione” sottolinea la capacità della madre di identificarsi con il piccolo, sia nei bisogni che nelle nascenti acquisizioni; un tale processo è possibile solamente nella misura in cui la madre è “se stessa” e non recita una parte seguendo una sorta di “copione”. In questa seconda fase relazionale, la ricompensa per la madre consiste nel fatto che il piccolo comincia ad essere in un certo senso consapevole della dipendenza; l’assenza della madre è tollerata per un certo periodo, poi compare l’ansia. Tale ansia è il segno che il piccolo si è formata la rappresentazione dell’oggetto-madre come “persona intera”, con la quale può intrattenere scambi comunicativi fondati sulla reciprocità.

Verso i due anni si apre la fase verso l’indipendenza: il piccolo inizia a sviluppare i mezzi per affrontare l’allontanamento dalla madre. Egli giunge ad avere queste capacità tramite la conservazione dei ricordi delle cure ricevute, la proiezione dei bisogni personali e l’introiezione dei vari aspetti delle cure, con lo sviluppo della fiducia nell’ambiente.

Il percorso dalla dipendenza all’indipendenza delineato da Winnicott si articola in tre processi fondamentali che determinano lo sviluppo dell’Io, ciascuno dei quali collegato ad un aspetto particolare dell’accudimento materno. Questi processi, che non si pongono in una sequenzialità di tappe, ma che sono attivi, sovrapponendosi durante tutto il corso della vita, sono: integrazione, personificazione e relazione d’oggetto. Gli aspetti dell’accudimento materno associati a questi processi sono l’holding, l’handling e l’object presenting.

L’holding trova la sua massima espressione durante la fase della dipendenza assoluta. Il termine “holding” significa sia tenere in braccio che sostenere in senso lato. Fa riferimento ad un rapporto tridimensionale o spaziale tra il corpo della madre e quello dell’infante cui si aggiunge gradualmente l’elemento tempo. L’integrazione è il processo di organizzazione della realtà psichica individuale che porta il soggetto alla condizione di percepire la propria unità e la propria esistenza, secondo la formula “Io sono”. Nella fase di dipendenza assoluta il piccolo si trova in uno stato di inintegrazione; l’integrazione interviene utilizzando schemi innati corporei, motori e sensoriali, sui quali si innesta il senso nascente di continuità di esistere. In questa fase, l’Io del neonato è totalmente immaturo, ma vi è già la presenza di una rudimentale elaborazione immaginativa del puro funzionamento corporeo che rende possibile la continuità del senso di esistere e con essa, l’inizio dell’integrazione. Questo processo integrativo è reso possibile dagli accudimenti materni nella forma dell’holding. La madre “sostiene” il piccolo, lo “avvolge” con il suo corpo e evita, grazie all’empatia garantita dalla preoccupazione materna primaria, che si verifichino degli “urti”, ossia delle stimolazioni interne e esterne che l’Io non ancora sviluppato del piccolo non può sostenere e che determinerebbero una discontinuità nel suo senso di esistere. La madre, con questo sostenere, fornisce anche un Io di sostegno o ausiliario al piccolo. L’integrazione non viene raggiunta e stabilizzata da subito; il piccolo esperirà delle oscillazioni tra momenti di integrazione e di inintegrazione. Una volta che la madre avrà fornito un sostegno al suo Io e lo avrà reso più stabile, il piccolo si abbandonerà a momenti di inintegrazione. Una volta che l’ambiente supportivo verrà vissuto come costante e affidabile, i momenti di inintegrazione si svolgeranno anche nelle situazioni di “solitudine in presenza di qualcuno”, dove quel qualcuno è la madre, la cui presenza supportiva permette al piccolo di abbandonare temporaneamente lo sforzo integrativo.

L’handling è alla base della personalizzazione, che può essere descritta come l’acquisizione di uno schema corporeo proprio, in cui la psiche si radica nel soma e in cui la pelle diviene un membrana che separa e mette in contatto il me da non-me. L’handling è la capacità della madre di maneggiare in modo naturale il corpo del bambino, senza produrgli urti, facendogli provare la sensazione che tutte le parti del corpo sono connesse in un’unità. Queste manovre di manipolazione permettono al bambino di sentire il proprio corpo sia come parte sia come contenitore del suo Sé. L’esistenza psicosomatica si fonda sul collegamento delle esperienze motorie, sensoriali e funzionali dell’infante con la nuova situazione di unità integrata. La costituzione di una membrana limitante data dalla pelle corrisponde alla separazione tra un mondo interno, contenuto dalla pelle, e un mondo esterno. L’object presenting corrisponde al momento in cui si dà la possibilità, per il piccolo, di stabilire relazioni oggettuali. La relazione oggettuale può avvenire solamente se l’ambiente è capace di presentare gli oggetti di cui ha bisogno in modo tale che il piccolo li viva come una sua creazione. Il bambino ha un bisogno che non riesce a formulare e che determina in lui un’attesa vaga; in risposta a questo bisogno la madre presenta un oggetto o una manipolazione adeguati in modo tale che il piccolo cominci ad aver bisogno proprio di ciò che gli è stato presentato. Allo stesso tempo, avviene un collegamento tra il bisogno e l’oggetto soddisfacente, che pone le basi per la consapevolezza dei propri stati interni. Questo “creare” la realtà è un’esperienza di onnipotenza che la madre piano piano stempera e che fa sviluppare al bambino la convinzione che il mondo contenga proprio ciò di cui ha bisogno. Quando le esperienze di onnipotenza sono totali, gli oggetti sono degli oggetti-soggettivi; con la crescita, le “buone” frustrazioni dell’onnipotenza e l’accesso ai fenomeni transizionali, il bambino incontrerà la realtà, la quale rimarrà comunque pervasa dalla soggettività.

La base dell’Io nelle cure della pelle.

La teoria dell’attaccamento e quella di Winnicott, pongono un’enfasi particolare sul contatto tra i due partecipanti alla relazione di cura primaria. La prima mette in luce come vi sia una pulsione indipendente da quella sessuale nel legame con il caregiver, che stimola il piccolo a ricercare la sua prossimità per ricavarne sicurezza e conforto. Il caregiver, stimolato dai segnali di attaccamento, ristabilisce il contatto e provvede a fornire le risposte adeguate ai bisogni espressi dal bambino. In questa relazione si stabilisce la costanza d’oggetto e, con essa, l’Io capace di simbolizzare. La teoria di Winnicott specifica i fenomeni di contatto che avvengono durante la relazione primaria e che sono alla base della costituzione dell’Io.

In entrambi i casi, la matrice di tale sviluppo è data dalla relazione dei due corpi di madre e figlio, relazione in cui la pelle si classifica come primo luogo di costruzione dell’Io. Seguendo Didier Anzieu, quindi, si può pensare alla pelle come un pre-Io, come ad un abbozzo di Io presente alla nascita che si pone in linea di continuità con le esperienze sensoriali della vita intrauterina, dove pelle e sistema nervoso si sviluppano a partire dalla matrice comune dell’ectoderma. Il concetto di pre-Io può essere assimilato alla rudimentale elaborazione immaginativa del puro funzionamento corporeo alla base del senso di continuità di esistere che Winnicott postula come presente già alla nascita. Il pre-Io, o Io-pelle, è innanzitutto corporeo, ed è un precursore dell’identità personale e del senso di realtà dell’Io psichico. Alla nascita, l’Io non ancora maturo si appoggia sulla pelle e sulle sue funzioni e stimolazioni per rappresentare se stesso come Io che è capace di contenere dei contenuti psichici. La pelle, come primo luogo di strutturazione, presenta delle funzioni che si sviluppano durante la relazione di accudimento e che, grazie a questo, forniscono l’appoggio per lo sviluppo delle funzioni dell’Io. A donare funzionalità alla pelle è la relazione di attaccamento, in cui si verificano le cure dell’ambiente maternale che, prima di ogni altra cosa, si rivolgono alla pelle, “circondandola” con stimolazioni tattili (così come avveniva nell’utero). L’ambiente maternale si cura del piccolo mediante azioni rivolte al suo corpo, con massaggi, sostegno, pulizia, alimentazione, eccetera. Lo spazio maternale deve rispondere ai bisogni lasciando uno spazio tra sé e la pelle del piccolo, in modo che egli possa sperimentare il bisogno, comunicarlo con le modalità sue proprie e attendere una risposta adeguata. L’ambiente, come detto, non deve né anticipare i bisogni del piccolo, soffocandolo con il suo involucro, né divenire troppo assente o puntiforme, pena la non costituzione dell’Io o la sua formazione come una pelle “bucata”. Lo spazio maternale apre lo spazio psichico per l’attesa dell’oggetto-madre solamente se non avviluppa l’Io immaturo con soddisfazioni di bisogni anticipati (e probabilmente fraintesi e proiettati) e se non si propone come uno spazio incostante. La pelle è l’interfaccia tra la madre “devota” e l’Io immaturo del neonato; è il tramite per le loro comunicazioni senza intermediari. Anzieu immagina l’esistenza di una pelle comune tra madre e bambino che assicura a quest’ultimo la possibilità di comunicare i suoi bisogni e alla madre, aiutata dallo stato di preoccupazione primaria, la comprensione dei bisogni e le risposte a questi. Il fantasma della pelle comune sembra la condizione comunicativa alla base della dipendenza assoluta, in cui madre e figlio sono uniti simbioticamente. Con l’istaurarsi della dipendenza relativa, tale pelle deve essere separata e personalizzata, in modo da poter cogliere la madre come oggetto a sé.

Il neonato, dunque, nasce come pelle, la quale fornisce il primo appoggio per lo sviluppo delle funzioni dell’Io. Anzieu richiama Freud nel sostenere che l’Io si appoggia nel suo emergere dall’Es, sulle funzioni della pelle, la quale fornisce una sensazione che è sia quella dell’oggetto toccato, sia dell’agente che tocca. Queste sensazioni rimandano, dunque, sia ad un esterno che ad un interno psichico, il quale le raccoglie come “proprie”. Il corpo, specialmente quello tattile, appare essere il pre-Io che necessita e cerca l’attaccamento con l’ambiente maternale, il quale esercita la sua influenza per integrare le sue parti, per renderle proprie di una persona che si relaziona con persone altre da sé e con la realtà.

Didier Anzieu si richiama al concetto freudiano dello sviluppo delle funzioni dell’Io per appoggio su quelle corporee, per sostenere che la pelle fornisce all’apparato psichico le rappresentazioni costitutive dell’Io e delle sue principali funzioni. L’autore stabilisce una continuità in cui alcune funzioni biologiche della pelle forniscono l’appoggio, per trasformazione, alle funzioni psichiche.

Una prima funzione riportata dall’autore è quella della pelle come sostegno. La pelle biologicamente sostiene lo scheletro e la muscolatura e questo sostegno è fornito dalla madre tramite l’holding, che sostiene il corpo del bimbo, donandogli unità, solidità e mantenendo la vita psichica in grado di funzionare nei momenti di veglia. La funzione psicologica della conservazione della vita psichica deriva dall’introiezione dell’holding materno, dal sostegno che la madre fornisce al corpo del piccolo promuovendo l’integrazione con il contatto dei loro corpi e con le mani. Ciò che viene interiorizzato, dunque, è il contatto con un oggetto che supporta e sostiene, oggetto cui il piccolo si stringe soddisfacendo la pulsione di aggrappamento e di attaccamento, più che la pulsione libidica. La soddisfazione libidica entra in gioco nel momento in cui questo contatto incorpora anche la poppata e il contatto oculare fra madre e figlio. La pelle comune tra il piccolo e l’oggetto-sostegno può avere, secondo Grotstein, due varianti: il dorso del bimbo contro il ventre della madre, e ventre del bimbo contro il dorso della madre. Nel primo caso, la madre-supporto fornisce protezione verso le parti che il piccolo non può controllare direttamente; nel secondo caso, la protezione è fornita alla parte più vulnerabile e preziosa, il ventre, da eccessi di eccitazione (funzione para-eccitatoria).

La pelle, in quanto superficie che ricopre l’intero corpo e nella quale sono contenuti gli organi, è la base per la funzione di contenitore dell’Io-pelle. L’handling della madre risveglia la sensazione-immagine della pelle come sacco mediante le cure corporee e le risposte che vengono offerte ai bisogni del bambino. Le emozioni e le sensazioni del bambino trovano una risposta nella relazione tra il suo corpo e quello della madre. Questa, con i gesti, la voce e le manipolazioni restituisce i vissuti al piccolo, sia in modo elaborato (mediante la rêverie), sia in modo che egli li viva come contenuti propri. L’Io-pelle, così, può essere il contenitore di contenuti provenienti dalle risposte corporee che la madre dà ai suoi bisogni corporei, rendendoli pensabili. I contenuti, così come le spinte pulsionali interne, forniscono un nucleo che deve trovare una limitazione, una superficie continua: l’Io-pelle che avvolge tutto l’apparato psichico. L’Io pelle si svilupperà, poi, in corpo differenziato sul quale la pulsione potrà essere convogliata per seguire le sue tappe di sviluppo.

Una terza funzione dell’Io-pelle è quella para-eccitatoria. Questa funzione psichica è svolta primariamente dalla madre e si struttura come funzione autonoma dell’Io solo quando questo trova una pelle sufficientemente saldo su cui appoggiarsi. La funzione psicologica è mutuata dalla funzione biologica dell’epidermide come protezione dalle diverse stimolazioni fisiche che incidono sull’organismo.

La pelle è il tramite per l’accesso di varie sostanze esterne e per il rifiuto di altre, secondo modalità estremamente individualizzate. In questo modo, anch’essa risulta diversa e propria di un unico organismo. L’Io-pelle traspone sul piano psichico questa caratteristica di estrema unicità, individualizzando il Sé.

La pelle è la superficie in cui si trovano disseminati tutti gli altri organi di senso. La funzione di sfondo sul quale si stagliano e si differenziano, pur restando uniti, i vari sensi, viene trasposta sul piano psichico dall’Io-pelle. Questo è il luogo in cui vengono collegate le varie sensazioni vengono tenute unite, collegate fra loro e riferite ad un unico soggetto, producendo al contempo una matrice per tutti i tipi di comunicazione, le quali presuppongono uno sfondo comunicativo tattile.

Inoltre, la pelle è oggetto dell’investimento libidico della madre, le cui cure implicano il contatto col corpo del piccolo. Queste cure piacevoli rendono la pelle lo sfondo dei futuri piaceri sessuali, localizzati in zone in cui la pelle è assottigliata, presenta orifizi o è erettile. Sul piano psicologico, la funzione di sfondo eccitatorio della pelle si traduce nella funzione dell’Io-pelle di fornire un’immagine di una superficie per il sostegno dell’eccitazione sessuale. Questa superficie si dispone come lo sfondo sul quale potranno essere differenziate le zone erogene.

Una funzione biologica della pelle, in quanto “contenitore” dei recettori di tutti i sensi, è quella di raccogliere le informazioni che provengono dal mondo esterno, integrando le varie stimolazioni in percetti unitari. Sul piano psicologico, l’Io-pelle traduce questa funzione di superficie recettiva in funzione di iscrizione di tracce sensoriali. Questa funzione è sostenuta dalla modalità di accudimento materno dell’object presenting: attraverso le modificazioni della pelle, intesa come contenitore dei sensi, la madre propone al piccolo le stimolazioni adeguate ai suoi bisogni, in modo che egli possa dapprima creare e poi intendere l’esistenza della realtà esterna.

Bibliografia

  • Anzieu, D., (1985), L’Io-pelle, tr. it., (1987), Roma, Borla.
  • Concato, G., (2006), Manuale di psicologia dinamica, Firenze, AlefBet.
  • Holmes, J., (1993), La teoria dell’attaccamento. John Bowlby e la sua scuola, tr. it., Milano, Raffaello Cortina Editore.
  • Winnicott, D. W., (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, tr. it., (1970), Roma, Armando.
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La teoria del pensiero di Bion

Proverò a dare una breve, e non esaustiva, rassegna della teoria del pensiero di Bion, cercando di vedere il significato di elementi alfa, elementi beta, funzione alfa.

Fattori e funzioni della personalità

Nel suo libro del 1962, Apprendere dall’esperienza, Bion comincia a spiegare la sua visione sulla formazione dei pensieri. La personalità dell’individuo viene concepita come un insieme di funzioni, dove «“funzione” indica l’attività mentale propria di una certa quantità di fattori che operano in concordanza» (Bion, 1962). Il fattore, invece, viene inteso come «l’attività mentale che, operando assieme ad altre, costituisce una funzione» (Bion, 1962). Attraverso l’indagine delle funzioni della personalità è possibile ricavare i fattori che la rendono possibile. Tra le funzioni che costituiscono la personalità, Bion considera fondamentale, per la genesi dei pensieri, quella che lui chiama funzione alfa.

Per rendere noti i fattori che costituiscono la funzione alfa, Bion ricorre alle indagini che Freud elaborò ne Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, del 1911, sulle modificazioni dell’apparato psichico e delle sue funzioni, in relazione a «L’aumentata importanza della realtà esterna» (Freud, 1911). Freud era partito dalla caratteristica del nevrotico di allontanarsi mentalmente dalla realtà, dalla sua «perdita della function du réel» (Freud, 1911), per cercare le cause di quella che gli appariva (come la nevrosi stessa) un comportamento “normale” dell’apparato psichico. La psicoanalisi gli aveva mostrato che, al di sotto delle modalità di pensiero cosciente, si celavano dei «processi più antichi, primari, […] residui di una fase di sviluppo nella quale essi costituivano l’unica specie di processi psichici» (Freud, 1911). Da questa modalità di pensiero-azione, denominata processo primario che agisce in base al principio di piacere-dispiacere, dove il “pensiero” mira ad ottenere piacere ed a rifuggire il dispiacere, e l’”azione” si risolve nell’allucinare la realizzazione del desiderio, l’apparato psichico ha dovuto sganciarsi a causa della sua inefficienza, e ha «dovuto risolversi a rappresentare a sé stesso, anziché le condizioni proprie, quelle reali del mondo esterno» (Freud, 1911) affinché quest’ultimo potesse essere modificato per l’appagamento dei desideri.

L’apparato psichico, quindi, ha dovuto, per questo scopo di vitale importanza, modificare sé stesso; e sono queste modificazioni che Bion riprende come fattori della funzione alfa. Questi sono l’attenzione e il sistema di annotazione. Bion li riprende con il valore semantico che Freud aveva dato loro: la prima come «una funzione particolare per esplorare periodicamente la realtà esterna, così che i dati di questa siano già noti quando si produca un incontenibile bisogno interiore» (Freud, 1911); il secondo «il cui compito è quello di depositare i dati di questa periodica attività di coscienza [cioè, l’attività di esplorazione della realtà esterna ad opera dell’attenzione]: una parte di quella che chiamiamo memoria» (Freud, 1911).

Bion dice che l’attenzione e l’annotazione, insieme alla scissione, all’identificazione proiettiva, all’oscillazione dalla posizione schizo-paranoide alla posizione depressiva e ad alcune considerazioni sulla formazione dei simboli e sullo sviluppo del linguaggio, verranno considerati «unicamente in qualità di fattori modificati mediante reciproca combinazione in una funzione» (Bion, 1962). Tutte questi processi e teorie, cioè, sono dei fattori che contribuiscono alla formazione della funzione alfa, un’integrazione di attività mentali fondamentale, in quanto presiede alla formazione dei pensieri.

Nell’utilizzare i passi in cui Freud ipotizza la formazione delle due neo-funzioni dell’apparato psichico deputate «a cogliere, oltre alle qualità del piacere e del dispiacere […], anche le qualità sensoriali» (Freud, 1911), Bion fa un’annotazione che si rivelerà fondamentale per la sua concezione della capacità (o possibilità) di apprendere dall’esperienza. Bion considera «il comprendere [funzione della coscienza] le impressioni sensoriali e il comprendere le qualità piacere e dolore» (Bion, 1962), come due parti dello stesso processo di comprensione, dove quest’ultima funzione è considerata «Non nel senso dell’intelligibilità, ma nel senso di estensione» (Bion, 1963). In questo contesto l’esperienza si configura come un’integrazione, nella comprensione cosciente, degli oggetti coi quali ci si rapporta, siano essi del “mondo esterno” o di quello “interno”, e delle qualità piacere-dispiacere percepite in relazione ad esso. In altre parole, per ottenere un apprendimento, si deve “lavorare” sulla totalità dei fattori che fanno sì che si abbia un’esperienza intesa come relazione tra un soggetto e un oggetto tra loro inseparabili. La coscienza, intesa nel senso freudiano di «organo di senso per la percezione di qualità psichiche» (Freud, 1899), non fa distinzione tra l’esperienza emotiva che si verifica nello stato di veglia, in quello di sonno o nell’esperienza del proprio mondo interno; «Perché possano essere utilizzati dai pensieri del sogno, le percezioni di un’esperienza emotiva debbono essere preventivamente elaborate dalla funzione alfa» (Bion, 1962).

Elementi alfa, elementi beta e funzione alfa

Da questo passo si comprende come, per Bion, la possibilità di avere pensieri dipenda dalla capacità di relazionarsi “positivamente”, cioè mediante quella funzione mentale che egli chiama funzionealfa, con le esperienze emotive che si producono in ogni situazione. Infatti, «La funzione alfa esegue le sue operazioni su tutte le impressioni sensoriali, quali che siano, e su tutte le emozioni, di qualsiasi genere, che vengono alla coscienza» (Bion, 1962), e fa sì che vengano prodotti quelli che Bion chiama elementi alfa, i quali «vengono immagazzinati e rispondono ai requisiti richiesti dai pensieri del sogno» (Bion, 1962). Questi elementi alfa sono concepiti, da Bion, come i “fenomeni”, in senso kantiano, e si contrappongono agli elementi beta, i quali, ancora kantianamente, sono sentiti dal soggetto come “cose in sé”. Questi ultimi sono il materiale grezzo, «le impressioni sensoriali coscienti e le emozioni provate» (Bion, 1962), dalle quali si potrebbero produrre elementi per i pensieri.

Gli elementi alfa possiedono, dunque, quelle caratteristiche che rendono possibile l’attività di pensiero, i ricordi e i sogni. Dice Bion (1962): «Difatti la funzione alfa trasforma le impressioni sensoriali in elementi alfa i quali hanno somiglianza – se addirittura non sono la stessa cosa – con le immagini visive che ci sono familiari nei sogni – quegli elementi cioè che svelano il loro contenuto latente quando l’analista li abbia interpretati». Gli elementi beta, non possedendo quelle caratteristiche, non sono adatti per le operazioni di pensiero, pur essendolo, comunque, per altre. Essi si configurano come «fatti indigeriti» (Bion, 1962), non come ricordi, e «sono disponibili per le operazioni dell’identificazione proiettiva» (Bion, 1962). Gli elementi beta sono destinati all’evacuazione, e il loro utilizzo è tipico di un «pensiero fondato sul manipolare ciò che viene percepito essere una cosa in sé: tale manipolazione viene omologata all’uso delle parole e delle idee» (Bion, 1962). Questo significa che, quelle impressioni sensoriali delle esperienze emotive, avvertite con le caratteristiche di oggetti sensibili, invece di diventare materiali per un pensare orientato verso la modificazione della realtà, e quindi simbolizzabili e rappresentabili con le parole di un linguaggio, restano “cose in sé”, che significano quello che sono, che si sovrappongono ai fatti della realtà esterna. L’individuo che utilizza un tipo di pensiero come questo, non distingue ciò che prova da ciò che è accaduto al suo esterno, ed è portato ad agire, nel mondo esterno, allo stesso modo in cui, un individuo con una funzione alfa efficiente, agisce nell’inconscio. Il risultato è la riduzione di una tensione interna, ma non inconscia, dato che l’intera mente è costituita da elementi beta, vale a dire, da una realtà che è così come appare.

Nuova concezione del sogno

La funzione alfa, come detto, opera sulle impressioni sensoriali delle esperienze emotive, sia della veglia che del sonno, formando gli elementi alfa. L’avere questi elementi elaborati (metabolizzati) conduce alla possibilità di prendere o meno coscienza di quelle esperienze. Bion utilizza le virgolette per distinguere e trovare una relazione tra il sognare, come processo psichico che si verifica nello stato di sonno, e il “sogno”, inteso da lui come una operazione più generale dell’attività psichica, comprendente anche il sogno con la comune accezione.

Quest’ultimo tipo di sogno, infatti, è il racconto, la descrizione, in stato di veglia (dove si deve leggere anche cosciente), di quella esperienza emotiva, sognata o sentita da svegli. Nell’ottica di Bion, il “sogno” (quello che egli vuole distinguere con l’uso delle virgolette) è un’operazione, resa possibile dalla funzione alfa, che ha come risultato la discriminazione tra il conscio e l’inconscio, separazione che deve essere mantenuta per avere un pensiero ordinato. Il sogno, comunemente inteso, è il resoconto (più o meno costruito) di ciò che è avvenuto durante lo stato di sonno. Per Bion, come si è già detto, la funzione alfa esplica la sua azione su ogni impressione sensoriale delle esperienze emotive, indipendentemente dal loro verificarsi nel sonno o nella veglia. L’ambito di applicazione della parola “sogno” (tra virgolette) si estende così a tutte le possibilità di pensare ciò che sta avvenendo, vale a dire, tutte le esperienze emotive che vengono metabolizzate e trasformate in elementi alfa.

Il “sogno” è, dunque, una barriera che mantiene separati gli avvenimenti dei quali è stata presa coscienza da quelli che rimangono fuori dalla comprensione di quest’ultima; esso, cioè, separa, anche grazie alle due funzioni scoperte da Freud della resistenza e della censura (che qui hanno chiaramente un’altra origine), ciò che è conscio da ciò che non lo è. A questo proposito, Bion riporta un esempio di una persona che, parlando con un amico, converte in elementi alfa le impressioni sensoriali di questa esperienza emotiva, e così «Grazie al “sogno” può continuare ad essere ininterrottamente sveglio; sveglio, cioè, relativamente al fatto di star parlando con il suo amico, ma addormentato relativamente ad elementi che, se potessero penetrare le barriera dei suoi “sogni”, metterebbero il suo intelletto sotto il dominio di idee ed emozioni solitamente inconsce» (Bion, 1962).

La barriera di contatto

Il “sogno”, che impedisce il dominio della consapevolezza sulle fantasie inconsce e viceversa, è esemplificata da una particolare modalità di relazionarsi degli elementi alfa, avente la funzione di preservare «la personalità da uno stato virtualmente psicotico» (Bion, 1962), una barriera tra la consapevolezza e i fenomeni mentali inconsci.Gli elementi alfa che si producono grazie all’azione che la funzione alfa esercita sulle impressioni sensoriali delle esperienze emotive, proliferano durante le esperienze, e «si condensano (cohere) formando [quella che Bion chiama] la barriera di contatto» (Bion, 1962). La barriera di contatto, essendo formata dalla condensazione e dalla proliferazione di elementi alfa, è in continua formazione, e «segna il punto di contatto e di separazione fra gli elementi consci ed inconsci e genera la distinzione fra loro» (Bion, 1962). Il conscio e l’inconscio sono anch’essi formati da elementi alfa, ma nel secondo si vanno a depositare le esperienze metabolizzate, così che il pensiero cosciente sia libero dalle emozioni dell’esperienza e possa dedicarsi a ciò che sta accadendo. Con la trasformazione degli elementi beta in elementi alfa e con il loro deposito nell’inconscio, i «pensieri destinati un tempo a diventare coscienti divengono inconsci» (Bion, 1962), col risultato che l’esperienza può essere pensata senza esserne coscienti. In questo modo «i pensieri del sogno e il pensiero inconscio di veglia» (Bion, 1962). hanno del materiale da utilizzare al fine di produrre sogni e di lasciare libero il pensiero da emozioni che ne comprometterebbero l’attività nella realtà; quindi, «La funzione alfa è necessaria per ragionare e pensare consapevolmente e per devolvere il pensare all’inconscio quando, nell’apprendere un’attitudine, è necessario liberare la coscienza dal peso del pensiero» (Bion, 1962). Sempre usando le parole di Bion (1962): «Ecco la formulazione più generale della mia teoria: perché si possa apprendere dall’esperienza, la funzione-alfa deve operare sulla consapevolezza di un’esperienza emotiva; dalle impressioni di tale esperienza scaturiscono elementi-alfa; tali elementi vengono resi immagazzinabili affinché i pensieri del sogno e il pensiero inconscio dei veglia li possano utilizzare».

Genesi della funzione alfa

Naturalmente Bion doveva anche concentrarsi sulle modalità di produzione, di genesi, della funzione che egli aveva ipotizzato per meglio comprendere i disturbi del pensiero. A questo proposito Bion riprende e sviluppa il “modello alimentare” che già Melanie Klein aveva applicato al pensiero e, come lei, pone come punto di partenza dello sviluppo dell’apparato per pensare i pensieri nella relazione duale seno/madre–bambino. Bion sostiene che, prima ancora di avere l’apparato che permette di pensare i pensieri, l’individuo deve essere capace di svilupparli, il che significa, utilizzando i suoi termini, che gli elementi beta devono potersi evolvere in elementi alfa. Per far ciò è necessaria la funzione alfa. La domanda che si pone è naturalmente come il bambino giunga ad averla.

Nell’infante, originariamente, sono presenti solo elementi beta («La conclusione è che gli elementi beta sono cronologicamente anteriori agli elementi alfa». Bion, 1962) le sue esperienze emotive sono «seno buono e seno cattivo» e «ciò che viene in primo luogo segnalato agli organi di senso sono la componente fisica, il latte, il malessere dovuto alla sazietà, o il suo opposto» (Bion, 1962). Egli non è capace di gestire e metabolizzare queste sensazioni e queste emozioni, dato lo stato primitivo della sua attività di pensiero, un pensiero che serve «a liberare la psiche dall’accumularsi degli stimoli, secondo quel meccanismo che Melanie klein ha chiamato identificazione primitiva». Questo meccanismo primitivo e non adattivo, che tratta la realtà in modo onnipotente, è alla base dello sviluppo del pensiero, nonché la chiave per comprendere come si formano le sue anomalie. Il bambino, mediante questo meccanismo, intende «suscitare nella madre la presenza di quelle sensazioni che egli non intende avere o che comunque desidera che la madre abbia» (Bion, 1962). È evidente che la madre gioca un ruolo cruciale nello sviluppo della capacità di pensare del bambino; ma, altrettanto importante è la costituzionale capacità di tollerare la frustrazione del bambino stesso. Tollerare la frustrazione significa non dover ricorrere alla scissione e alla proiezione di parti di sé avvertite come cattive nella madre e, di conseguenza, entrare in rapporto più realistico con la realtà.

Sulle orme di Klein, Bion ripercorre il cammino che, dalla relazione duale originaria tra madre e bambino, conduce alla formazione, in quest’ultimo, di un pensiero dominato dal principio di realtà, dalla capacità di adattarsi all’ambiente esterno e dalla possibilità di relazionarsi con la propria realtà psichica, rintracciando in essa la verità su sé stesso. In questa relazione il seno dona al bambino «latte, senso di sicurezza, calore, benessere, amore» (Bion, 1962). Tra latte e amore, a prima vista, la differenza sta nella concretezza del primo, e nella immaterialità del secondo. Ma, «dal punto di vista del benessere psichico del bambino, [l’amore, può essere concepito] come qualcosa di simile al latte» (Bion, 1962). Il canale digerente è l’apparato idoneo alla ricezione del latte; apparato che sembra mancare, invece, alla ricezione dell’amore. Ma, come fa notare Bion, esiste una stretta correlazione, nel rapporto madre-bambino, tra il latte e l’emotività; infatti, «quando succede che il latte viene a mancare, si chiamano in causa disturbi emotivi [e], Altrettanto per il bambino: quando soffre di disturbi digestivi, si imputa all’ambiente emotivo l’origine di essi» (Bion, 1962). Ecco che il seno (inteso per come lo intende Melanie Klein) è l’oggetto che dispensa, non solo il latte, ma anche l’amore. Si tratta, quindi, di un «seno psicosomatico […] [cioè dell’] oggetto di cui il bambino ha bisogno per procacciarsi il latte e gli oggetti interni buoni», il quale trova corrispondenza in un «canale alimentare psicosomatico» (Bion, 1962) del bambino.

La rêverie

La madre, dunque, esprime il suo amore, «oltre che con i canali fisici di comunicazione, [anche] per mezzo della rêverie» (Bion, 1962). La rêverie è un fattore della funzione alfa della madre, ed è definita da Bion come «lo stato mentale aperto alla ricezione di tutti gli “oggetti” provenienti dall’oggetto amato, quello stato cioè capace di recepire le identificazioni proiettive del bambino, indipendentemente dal fatto se costui le avverta come buone o come cattive» (Bion, 1962). Essa è un’attività mentale che, combinandosi con altre, forma quella funzione capace di trasformare le impressioni sensoriali delle esperienze emotive in oggetti pensabili (o passibili di evolvere in pensieri), anche se in questo caso si parla delle sensazioni del bambino. In questa relazione di rêverieil concetto di identificazione proiettiva, per Bion, varca i limiti della fantasia intra-psichica del soggetto alla quale Klein lo aveva legato, e va a coprire un ruolo più ampio: la comunicazione. Il meccanismo che Melanie Klein aveva enucleato si configura, in Bion, come una modalità primitiva di comunicazione delle proprie esperienze emotive «che opera piuttosto con gli oggetti esterni che con gli oggetti interni» e che «induce realmente nell’altro un coinvolgimento emotivo» (Bertolone, S.; Correale, A.; De Spuches, G.; Fadda, P. (1994).

In quanto modalità comunicativa delle emozioni, e in quanto meccanismo atto a manipolare la realtà esterna, l’identificazione proiettiva, è già concepibile come «una varietà primitiva di quanto più tardi viene definito capacità di pensare» (Bion, 1962). Essa tende sì, a sbarazzare l’apparato psichico dall’accumulo di stimoli, ma soprattutto tenta di instaurare un “canale emotivo” con l’alterità, creando un «campo bi-personale o pluri-personale» (Bertolone, S.; Correale, A.; De Spuches, G.; Fadda, P. (1994) che garantisce il passaggio delle emozioni verso una soggettività capace di “metabolizzarle”. La funzione alfa della madre deve avere la capacità di accogliere le comunicazioni emotive del bambino (che fanno sempre riferimento alle sensazioni di persecuzione da parte di oggetti cattivi, come il seno cattivo), di modificarle e di restituirle sottoforma di «oggetti interni stabili o funzioni mentali acquisite» (Il seno cattivo è l’esperienza dell’assenza di un seno buono, vissuta come esperienza di presenza di un seno dalle qualità opposte. Il bisogno di un seno buono, che però è assente, si trasforma nel bisogno di eliminare-espellere un seno cattivo).

Nel periodo dell’allattamento, quindi, il bambino è preda di forti emozioni per lui incomprensibili; gli elementi beta, che costituiscono queste emozioni, possono solamente essere evacuati mediante l’identificazione proiettiva, comunicati alla madre, disposta a riceverli nella posizione di rêverie, la quale li “metabolizza”, restituendoli al bambino insieme alla capacità di formare i pensieri: la funzione alfa. La comunicazione resa possibile dalla identificazione proiettiva fa si che la madre possa «riconoscere lo stato d’animo del proprio bambino prima che egli stesso ne sia conscio» (Bion, 1962), e rende possibile una risposta adeguata a quelle emozioni (ad esempio, una rassicurazione) che viene comunicata al bambino. Il latte e l’amore sono per Bion, rispettivamente, la condizione di uno sviluppo sano dell’organismo, e la condizione della possibilità di evoluzione di un apparato sano per pensare i pensieri: infatti, mentre mediante il latte il bambino può sostentarsi e crescere fisicamente, tramite l’amore, la rêverie della madre, egli può sostituire ai contenuti emotivi incomprensibili, persecutori e cattivi che lo pervadono dei contenuti integri, buoni e pensabili, introiettando anche la funzione alfa, la quale gli permetterà di sganciare il suo apparato psichico da quello della madre nella produzione e nell’utilizzo dei pensieri.

Anomalie nella funzione alfa

La dinamica tra elementi alfa e elementi beta nella relazione di rêverie con la madre, non si esaurisce, naturalmente, nell’esito positivo della assunzione della funzione alfa, nella costituzione dellabarriera di contatto che separa conscio e inconscio e nella possibilità di pensare i pensieri. La teoria delle funzioni di Bion ha il compito di rendere ragione di tutte le situazioni analitiche, senza fare ricorso a teorie ad hoc ogni qualvolta si presentino delle realizzazioni sconosciute. I disturbi del pensiero si opponevano alla teoria classica di Freud, e non potevano essere oggetto di indagine mediante quella. Ecco che, parallelamente allo sviluppo “positivo” della funzione alfa, si presenta anche il suo contrario, una mancanza o una forma di impiego di essa volta all’esclusione del principio di realtà, e determinato dal predominio dell’invidia (in senso kleiniano)e dell’incapacità a tollerare la frustrazione nella relazione originaria con la madre. Se «l’intolleranza della frustrazione (o l’eccesso di invidia o di odio) superano un certo limite, entrano in opera meccanismi onnipotenti, specialmente quello dell’identificazione proiettiva» (Bion, 1962), che può condurre all’evacuazione, insieme agli elementi beta indesiderati, anche della stessa funzione alfa. A causa di questi meccanismi la funzione alfa può subire, o un arresto, che la conduce ad essere difettosa, o una «inversione di senso» (Bion, 1962) nel suo operare. Quando la funzione alfa è difettosa, al posto della barriera di contatto formata da elementi alfa, si costituisce lo schermo beta, un agglomerato di elementi beta, che presenta caratteristiche di coerenza, «dotato di una speciale proprietà, quella di provocare le risposte desiderate ovverosia di indurre nell’analista una reazione fortemente caricata di controtransfert» (Bion, 1962). Con l’inversione della funzione alfa, tutti i suoi prodotti subiscono un processo teso a “spogliare” gli elementi alfa di «quelle caratteristiche che li diversificavano dagli elementi beta» (Bion, 1962), per poi essere proiettati. Ne risultano degli oggetti differenti dagli elementi beta, ma che a loro si approssimano più di qualsiasi altro elemento: gli oggetti bizzarri. A differenza delle impressioni grezze che il soggetto avverte durante una esperienza emotiva, gli oggetti bizzarri presentano delle «tracce di Io e di Super Io» al loro interno. Il soggetto considera gli oggetti bizzarri «come parti di sé e nello stesso tempo oggetti del mondo esterno che mantengono una vita propria ed incontrollata» (D’Aspruzzo, A. (1994)) «Il paziente avverte che ogni particella consiste di due parti: un nucleo costituito dall’oggetto reale ed un alone attorno ad esso, rappresentato dal frammento della propria personalità» (Bion, 1957).

Riferimenti bibliografici

Bion, W. R. (1957) Criteri differenziali tra personalità psicotica e non psicotica. In Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Roma, Borla

Bion, W. R. (1962) Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando 1972

Bion, W. R. (1963) Gli elementi della psicoanalisi. Roma, Armando 1973

Freud, S. (1899) L’interpretazione dei sogni. OSF, Vol. 3

Freud, S. (1911) Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico. OSF, Vol. 6

Neri, C.; Correale, A. ; Fadda, P. (a cura di) (1994) Letture bioniane. Roma, Borla