La situazione attuale data dalle restrizioni necessarie per far fronte al Coronavirus impone dei grandi sacrifici alla nostra libertà di movimento e di incontro.
Lo studio dello psicologo non ne è, naturalmente, immune.
Sicuramente niente può sostituire del tutto la presenza di due
persone nello studio, nel suo clima accogliente e sicuro. Due persone
si trovano in una stanza e per un breve, ma molto intenso periodo,
sospendono il tempo per entrare nel tempo degli affetti. Le parole
hanno un suono corposo, vivo, risuonano e vibrano. I significati si
materializzano.
Anche tradizionalmente, lo psicologo ha uno studio. Esiste un luogo
in cui si va a parlare di noi stessi con un’altra persona. Un luogo
che ha una dimensione, degli odori, delle sensazioni tattili.
Questo periodo, tuttavia, sembra richiedere anche un’alternativa,
magari solamente confinata al momento di emergenza. La possibilità
di consulenze on-line sembra essere l’alternativa migliore.
Infatti, è capace di creare un ambiente in cui è possibile un
“contatto” e un lavoro. Lo strumento on-line può dare la
“presenza”, sicuramente virtuale, dell’altra persona, ma la
rende visibile, presente, appunto. La mente accoglie questa
possibilità e si mobilita per creare uno “spazio” condiviso. Si
può dire che abbassa le luci, comincia a escludere alcuni stimoli,
si concentra sulle parole e sul tono di voce. Inizia un processo di
“creazione della presenza” in cui l’altro diventa un elemento
del nostro pensiero con cui è possibile e sicuro parlare.
Sicuramente gli aspetti della realtà sono più presenti. Deve essere
trovata una stanza in cui si sa che non transiterà nessuno, con il
maggior silenzio possibile. Deve essere trovata anche una situazione
comoda dove sedersi, dove potersi rilassare.
Gli aspetti tecnologici possono creare qualche problema: il microfono
può non funzionare per un attimo, la linea può interrompersi,
l’audio può non essere eccellente. Sono alcune delle difficoltà
poste dal non poter essere nella stessa stanza. In questo periodo,
però, sembrano rappresentare degli ostacoli che possono essere
superati in favore di uno spazio di lavoro psicologico, da iniziare o
da mantenere. Di fatto, la tecnologia è uno degli strumenti che
abbiamo sviluppato proprio per gestire al meglio la realtà in
funzione dei nostri bisogni.
Una distanza fisica non è necessariamente una distanza emotiva.
La premessa è che questo è virus. Un virus è un elemento oggettivo, col quale non si discute. Per affrontare il virus è inevitabile, indispensabile e saggio riferirsi a chi si occupa di virus con le indicazioni che vengono fornite.
Qui due siti che, probabilmente nei
prossimi mesi, saranno fra
le nostre bussole.
Questa è la premessa e deve essere
sempre tenuta a mente.
Oltre alla premessa, il COVID-19 ha
portato nelle nostre vite qualcosa di nuovo. È arrivato in modo
inaspettato, da lontano, silenzioso. Ma poteva arrivare anche da
molto vicino. Il virus non ha nazionalità. È un modo che ha la vita
di vivere, di adattarsi. Il suo adattamento, in
questo caso, è però per
noi dannoso.
Il Coronavirus sta avendo un
impatto enorme nelle nostre vite, da tutti i punti di vista. Proverò
a scrivere qualche riflessione sulle implicazioni psicologiche
dell’arrivo di questa forma di vita.
Il limite
Un presidio che è stato adottato è l’isolamento, la quarantena,
la restrizione delle attività quotidiane. Questo non per sconfiggere
il virus, ma per limitarne la diffusione e permettere al nostro
Sistema Sanitario di non collassare. È quindi stato posto un limite.
Brutta parola “limite”. Sul piano sociale, ma soprattutto su
quello psicologico, il “limite” è qualcosa che non accettiamo di
buon grado. È qualcosa che ci fa arrabbiare. Urta contro la nostra
onnipotenza, contro quel sentimento che coltiviamo internamente e che
ci fa sentire invulnerabili. È difficile sentirsi dire “no”,
“attento”, “questo non puoi farlo”. Ci fa sentire privati di
quella autonomia e indipendenza che con tanta fatica ci siamo
guadagnati. Le indicazioni per il contenimento del virus, del suo
propagarsi a tutta la popolazione, possono risonare come un fermo al
nostro desiderio di essere “invulnerabili”. E spesso, per
contrastare questo penoso sentimento, siamo portati a incrementare
proprio la carica onnipotente. Siamo portati alla sottovalutazione
del rischio, nostro e altrui. Per non sentirci deboli immaginiamo di
essere estremamente forti, esponendoci e esponendo a pericoli.
Pericoli stavolta molto seri.
La maggiore onnipotenza ci espone alla massima impotenza.
Riconoscimento dell’altro
L’arrivo del Coronavirus ha anche aperto una porta prima socchiusa:
l’altro. E lo ha fatto in una duplice modalità. L’altro è colui
che può contagiare e l’altro è colui che possiamo contagiare. In
entrambi i casi, c’è qualcuno da considerare che prima era solo in
penombra.
È angosciante pensare che ci siano persone che possono trasmettere
il virus, farci ammalare, renderci deboli. Questo può alimentare in
noi un senso di timore verso gli altri, aumentando sentimenti di
ostilità verso “qualcuno”. Nella fantasia di poter controllare e
eliminare ciò che ci spaventa, cerchiamo una causa, un “nemico”
identificabile da poter controllare. Il virus diventa l’altro e
l’altro diventa il virus.
L’altro entra nella nostra vita anche sotto una luce diversa. È
l’altro che va protetto, tutelato dal contagio. In prima istanza
cominciamo a pensare ai nostri cari più deboli, poi immaginiamo che
ci sono altre persone delle quali, in qualche misura, siamo
responsabili. Questa apertura porta ad un aumento di spazio psichico
da dare ad altro oltre a noi. È un cambiamento grande quello di
accogliere altri dentro di noi. E all’inizio possiamo non viverlo
come un arricchimento. L’esperienza del Coronavirus ci può dire
che fortunatamente non siamo soli, ma che dobbiamo costruire nuove
“stanze interne” alla nostra mente. Il lavoro può essere duro.
Cambiamento
L’arrivo del Coronavirus ha portato anche un senso di cambiamento.
L’impatto sulla vita quotidiana, le restrizioni a cui siamo
sottoposti, l’apertura al riconoscimento dell’altro e il pensiero
di qualcosa di difficilmente controllabile sono alcuni dei
cambiamenti più riconoscibili. Ma quello che è più spaventoso,
forse, è proprio che “qualcosa è cambiato”, che l’equilibrio
costruito con fatiche, rinunce e sofferenze, deve modificarsi. Parole
come “pandemia” e “contagio globale” sono espressioni che
richiamano eventi mai presi in considerazione. Sono parole che
annunciano un fattore esterno capace di sbilanciare, se non far
crollare, quell’equilibrio tanto sudato. Il Coronavirus sembra
raccogliere tutte le ansie che possiamo avere di perdere il nostro
equilibrio. Si presta bene a farsi portavoce delle nostre paure. In
realtà, è un virus, una forma di vita che proviamo a gestire con
gli strumenti sociali (isolamento, quarantena, ecc…) e scientifici
(la ricerca) che già altre volte ci hanno salvato. Il virus si fa
bandiera dell’esercito dei cambiamenti.
Bisogno di vicinanza
A mio avviso, un aspetto fondamentale che il virus ha colpito,
tramite le misure di responsabilità sociale, è il bisogno di
vicinanza. Non ci possiamo toccare, dobbiamo stare a distanza di
sicurezza. Qualcuno deve rinunciare a frequentare i propri cari.
L’isolamento in questo senso è solitudine, privazione del
contatto. Contatto che ora ha la maschera terrifica del contagio. Il
Coronavirus ci ha lasciati da soli, pulire le superfici, gli
occhiali, i telefoni. Ci ha lasciati con l’idea delle mascherine e
dei guanti. Il virus si è frapposto fra noi e i nostri affetti,
limitando le possibilità di “ricaricarci” affettivamente con la
vicinanza e il contatto.
Conclusione
Come detto all’inizio, le premesse sono fondamentali. Quello che
stiamo affrontando è un evento naturale, un virus, che deve essere
gestito tramite le risorse che abbiamo. Queste risorse sono le
indicazioni che ci vengono fornite dalle Istituzioni.
Il fatto che sia un evento naturale poco importa alla nostra
affettività e alla nostra vita mentale. Siamo colpiti da una bufera
che coinvolge ogni aspetto della nostra vita. Ne ho indicate alcune,
che ritengo importanti, per segnalare a noi stessi qualcosa al quale
possiamo fare caso quando la bufera interna si fa più forte.
Pensarle può aiutare a chiudere qualche finestra nella bufera e a
aiutarci a sopportare meglio questa complessa situazione. Forse si
soffre in modo diverso se sappiamo cosa ci fa soffrire. Se gli diamo
un nome possiamo costruire una frase, parlarne e non solo esserne
preda.