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Il tempo al tempo del Coronavirus

L’attesa

Stiamo vivendo un periodo nuovo e il primo pensiero è “quando finirà?“. È un momento storico (con la S maiuscola perché stiamo vivendo la Storia) che ci vede impegnati nel confronto con la restrizione di molte cose che davamo per scontate. Ormai le abbiamo tutti sotto gli occhi, ci facciamo i conti, le pensiamo e le sogniamo. Le soffriamo.

Le misure di contenimento messe in atto per rallentare l’espansione del Coronavirus mi sembrano incontrare, attualmente, un vissuto che di solito è sullo sfondo, ma che è la tela sulla quale dipingiamo la nostra vita quotidiana: il vissuto del tempo.

È nel tempo che svolgiamo tutte le nostre attività, programmiamo i nostri obiettivi, i nostri progetti, ci collochiamo mentalmente per pensare i ricordi, darci identità e proiettarci nel futuro.

Il tempo sta diventando molto più presente, concreto, costante oggetto dei nostri pensieri. Eppure, se ne perde un po’ la cognizione. L’orologio che prima scandiva gli impegni della nostra vita è sospeso. La lancetta dell’orologio si sforza di arrivare al secondo successivo. Il tempo, ora, è tanto, meno legato all’orologio e maggiormente scandito dalla qualità dei nostri vissuti. La mente cerca qualcosa per poterlo riempire: le cose lasciate in sospeso da molto, interessi trascurati, nuove attività da fare da soli o in famiglia. Il tempo, ora così dilatato e incerto, crea una specie di vuoto. Chiusi in casa, è come se si aprissero le porte anche della nostra “casa interna”, dei nostri pensieri, della nostra intimità, nella quale dobbiamo soggiornare. Il “da farsi” che portava quotidianamente a pensare “fuori di noi”, è temporaneamente sospeso e ci riporta al nostro interno.

Ma il tempo che è cambiato maggiormente è quello globale. Le misure di contenimento hanno aperto un tempo nuovo, quello che segna l’ora della fine di quelle misure. È quella “lancetta” che fatica ad arrivare al secondo successivo, che rimane in tensione, che procura tensione.

L’arrivo della pandemia da Coronavirus ha creato un “prima”, un “dopo” e un “ora”.

Prima

Il “prima” è carico di vissuti nostalgici, talvolta tristi, talvolta felici. È il passato che pensavamo sarebbe stato come il futuro. Un passato che appariva come la nostra base per costruire chi siamo e chi saremmo voluti essere. A volte, torniamo volontariamente a questi ricordi, a queste sensazioni e emozioni, per aprire un varco nel buio e scaldarci con la speranza che presto tutto questo finirà. A volte ci prendono alla sprovvista, con grande struggimento, rivestendo i nostri pensieri con un velo di tristezza. In questo momento, il passato è la cosa più certa che abbiamo.

Dopo

Il “dopo” ha i caratteri dell’incertezza. Si modula quotidianamente (ma forse quasi ogni ora) in base alle informazioni che cerchiamo o nelle quali ci imbattiamo. Ogni tanto si avvicina, quando arriva un farmaco promettente o un dato epidemiologico positivo. Ogni tanto si allontana, perdendosi nei rinvii delle misure di contenimento o nelle tempistiche per lo sviluppo di un vaccino. È un “dopo” che promuove il ritorno al passato, al “prima” e che attiva quelle sensazioni nostalgiche che spesso ci avvolgono. La speranza di un ritorno al passato può anche portare a non vedere chiaramente il cambiamento in atto, esponendo a comportamenti al momento rischiosi. Adesso il futuro è “dopo”, “quando sarà finito tutto”. Ma è un pensiero che non ha (ancora) oggetto e si colma di fantasie, speranze, angosce.

Ora

Il “prima” e il “dopo” si incontrano nell’”ora” sotto forma di attesa. L’attesa è un sentimento difficile per la mente. Comporta rimandare la soddisfazione dei bisogni, dei desideri. Significa sostare in una condizione mentale che non dà risposte. Anzi, spesso è la fonte di molte domande, non sempre legate al problema, ma specchio delle nostre preoccupazioni. L’attesa ci fa anche sentire senza risorse, quasi impotenti, perché ci pone in una condizione di passività. Il tempo dell’ora” si colma dei ricordi del passato al quale si vorrebbe tornare e delle aspettative di un futuro che restituisca il tempo dell’orologio a cui eravamo abituati.

Attendere

Quindi, “attendere” significa sopportare, sostenere, un “ora” che non può tornare ad essere “prima” e non è ancora “dopo”. Un carico pesante. E anche poco conosciuto. Nell’attesa sembra di non poter “fare”, di “perdere tempo”, quasi che il nostro essere sia confinato all’azione. L’attesa è invece anche il luogo e il tempo del nostro sentire, è un momento in cui siamo più vicini a noi stessi. Se prestiamo attenzione, possiamo sentire il ribollire dei nostri sentimenti, lo scricchiolio dei nostri pensieri, il corpo dei nostri ricordi. Attendere significa dare senso alla nostra vita interna, starle vicino e camminare in essa, scoprire stanze poco frequentate, aprire finestre di comprensione. Attendere ha il valore di riprendere una temporalità interna in cui i secondi sono i sentimenti spesso dimenticati, le emozioni talvolta incomprese, i pensieri poco chiari ma potenti. Nel momento in cui attendiamo qualcosa siamo in compagnia del più importante dei nostri vissuti: il tempo interno.

È sicuramente un momento diverso da quello a cui siamo abituati: il tempo dell’orologio, dei progetti, del mondo esterno. Non ci sono le solite cose da fare, quelle che quotidianamente ci definiscono e ci proiettano nel futuro. Sembra che siamo chiamati a soggiornare dentro noi stessi, a “essere” noi stessi, a diventare noi stessi nell’attesa che arrivi il “dopo”.

Il supporto psicologico on-line

Il supporto psicologico on-line

La situazione attuale data dalle restrizioni necessarie per far fronte al Coronavirus impone dei grandi sacrifici alla nostra libertà di movimento e di incontro.

Lo studio dello psicologo non ne è, naturalmente, immune.

Sicuramente niente può sostituire del tutto la presenza di due persone nello studio, nel suo clima accogliente e sicuro. Due persone si trovano in una stanza e per un breve, ma molto intenso periodo, sospendono il tempo per entrare nel tempo degli affetti. Le parole hanno un suono corposo, vivo, risuonano e vibrano. I significati si materializzano.

Anche tradizionalmente, lo psicologo ha uno studio. Esiste un luogo in cui si va a parlare di noi stessi con un’altra persona. Un luogo che ha una dimensione, degli odori, delle sensazioni tattili.

Questo periodo, tuttavia, sembra richiedere anche un’alternativa, magari solamente confinata al momento di emergenza. La possibilità di consulenze on-line sembra essere l’alternativa migliore. Infatti, è capace di creare un ambiente in cui è possibile un “contatto” e un lavoro. Lo strumento on-line può dare la “presenza”, sicuramente virtuale, dell’altra persona, ma la rende visibile, presente, appunto. La mente accoglie questa possibilità e si mobilita per creare uno “spazio” condiviso. Si può dire che abbassa le luci, comincia a escludere alcuni stimoli, si concentra sulle parole e sul tono di voce. Inizia un processo di “creazione della presenza” in cui l’altro diventa un elemento del nostro pensiero con cui è possibile e sicuro parlare.

Sicuramente gli aspetti della realtà sono più presenti. Deve essere trovata una stanza in cui si sa che non transiterà nessuno, con il maggior silenzio possibile. Deve essere trovata anche una situazione comoda dove sedersi, dove potersi rilassare.

Gli aspetti tecnologici possono creare qualche problema: il microfono può non funzionare per un attimo, la linea può interrompersi, l’audio può non essere eccellente. Sono alcune delle difficoltà poste dal non poter essere nella stessa stanza. In questo periodo, però, sembrano rappresentare degli ostacoli che possono essere superati in favore di uno spazio di lavoro psicologico, da iniziare o da mantenere. Di fatto, la tecnologia è uno degli strumenti che abbiamo sviluppato proprio per gestire al meglio la realtà in funzione dei nostri bisogni.

Una distanza fisica non è necessariamente una distanza emotiva.

Coronavirus: qualche piccola riflessione

Premessa

La premessa è che questo è virus. Un virus è un elemento oggettivo, col quale non si discute. Per affrontare il virus è inevitabile, indispensabile e saggio riferirsi a chi si occupa di virus con le indicazioni che vengono fornite.

Qui due siti che, probabilmente nei prossimi mesi, saranno fra le nostre bussole.

http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus

https://www.medicalfacts.it

Questa è la premessa e deve essere sempre tenuta a mente.

Oltre alla premessa, il COVID-19 ha portato nelle nostre vite qualcosa di nuovo. È arrivato in modo inaspettato, da lontano, silenzioso. Ma poteva arrivare anche da molto vicino. Il virus non ha nazionalità. È un modo che ha la vita di vivere, di adattarsi. Il suo adattamento, in questo caso, è però per noi dannoso.

Il Coronavirus sta avendo un impatto enorme nelle nostre vite, da tutti i punti di vista. Proverò a scrivere qualche riflessione sulle implicazioni psicologiche dell’arrivo di questa forma di vita.

Il limite

Un presidio che è stato adottato è l’isolamento, la quarantena, la restrizione delle attività quotidiane. Questo non per sconfiggere il virus, ma per limitarne la diffusione e permettere al nostro Sistema Sanitario di non collassare. È quindi stato posto un limite. Brutta parola “limite”. Sul piano sociale, ma soprattutto su quello psicologico, il “limite” è qualcosa che non accettiamo di buon grado. È qualcosa che ci fa arrabbiare. Urta contro la nostra onnipotenza, contro quel sentimento che coltiviamo internamente e che ci fa sentire invulnerabili. È difficile sentirsi dire “no”, “attento”, “questo non puoi farlo”. Ci fa sentire privati di quella autonomia e indipendenza che con tanta fatica ci siamo guadagnati. Le indicazioni per il contenimento del virus, del suo propagarsi a tutta la popolazione, possono risonare come un fermo al nostro desiderio di essere “invulnerabili”. E spesso, per contrastare questo penoso sentimento, siamo portati a incrementare proprio la carica onnipotente. Siamo portati alla sottovalutazione del rischio, nostro e altrui. Per non sentirci deboli immaginiamo di essere estremamente forti, esponendoci e esponendo a pericoli. Pericoli stavolta molto seri.

La maggiore onnipotenza ci espone alla massima impotenza.

Riconoscimento dell’altro

L’arrivo del Coronavirus ha anche aperto una porta prima socchiusa: l’altro. E lo ha fatto in una duplice modalità. L’altro è colui che può contagiare e l’altro è colui che possiamo contagiare. In entrambi i casi, c’è qualcuno da considerare che prima era solo in penombra.

È angosciante pensare che ci siano persone che possono trasmettere il virus, farci ammalare, renderci deboli. Questo può alimentare in noi un senso di timore verso gli altri, aumentando sentimenti di ostilità verso “qualcuno”. Nella fantasia di poter controllare e eliminare ciò che ci spaventa, cerchiamo una causa, un “nemico” identificabile da poter controllare. Il virus diventa l’altro e l’altro diventa il virus.

L’altro entra nella nostra vita anche sotto una luce diversa. È l’altro che va protetto, tutelato dal contagio. In prima istanza cominciamo a pensare ai nostri cari più deboli, poi immaginiamo che ci sono altre persone delle quali, in qualche misura, siamo responsabili. Questa apertura porta ad un aumento di spazio psichico da dare ad altro oltre a noi. È un cambiamento grande quello di accogliere altri dentro di noi. E all’inizio possiamo non viverlo come un arricchimento. L’esperienza del Coronavirus ci può dire che fortunatamente non siamo soli, ma che dobbiamo costruire nuove “stanze interne” alla nostra mente. Il lavoro può essere duro.

Cambiamento

L’arrivo del Coronavirus ha portato anche un senso di cambiamento. L’impatto sulla vita quotidiana, le restrizioni a cui siamo sottoposti, l’apertura al riconoscimento dell’altro e il pensiero di qualcosa di difficilmente controllabile sono alcuni dei cambiamenti più riconoscibili. Ma quello che è più spaventoso, forse, è proprio che “qualcosa è cambiato”, che l’equilibrio costruito con fatiche, rinunce e sofferenze, deve modificarsi. Parole come “pandemia” e “contagio globale” sono espressioni che richiamano eventi mai presi in considerazione. Sono parole che annunciano un fattore esterno capace di sbilanciare, se non far crollare, quell’equilibrio tanto sudato. Il Coronavirus sembra raccogliere tutte le ansie che possiamo avere di perdere il nostro equilibrio. Si presta bene a farsi portavoce delle nostre paure. In realtà, è un virus, una forma di vita che proviamo a gestire con gli strumenti sociali (isolamento, quarantena, ecc…) e scientifici (la ricerca) che già altre volte ci hanno salvato. Il virus si fa bandiera dell’esercito dei cambiamenti.

Bisogno di vicinanza

A mio avviso, un aspetto fondamentale che il virus ha colpito, tramite le misure di responsabilità sociale, è il bisogno di vicinanza. Non ci possiamo toccare, dobbiamo stare a distanza di sicurezza. Qualcuno deve rinunciare a frequentare i propri cari. L’isolamento in questo senso è solitudine, privazione del contatto. Contatto che ora ha la maschera terrifica del contagio. Il Coronavirus ci ha lasciati da soli, pulire le superfici, gli occhiali, i telefoni. Ci ha lasciati con l’idea delle mascherine e dei guanti. Il virus si è frapposto fra noi e i nostri affetti, limitando le possibilità di “ricaricarci” affettivamente con la vicinanza e il contatto.

Conclusione

Come detto all’inizio, le premesse sono fondamentali. Quello che stiamo affrontando è un evento naturale, un virus, che deve essere gestito tramite le risorse che abbiamo. Queste risorse sono le indicazioni che ci vengono fornite dalle Istituzioni.

Il fatto che sia un evento naturale poco importa alla nostra affettività e alla nostra vita mentale. Siamo colpiti da una bufera che coinvolge ogni aspetto della nostra vita. Ne ho indicate alcune, che ritengo importanti, per segnalare a noi stessi qualcosa al quale possiamo fare caso quando la bufera interna si fa più forte. Pensarle può aiutare a chiudere qualche finestra nella bufera e a aiutarci a sopportare meglio questa complessa situazione. Forse si soffre in modo diverso se sappiamo cosa ci fa soffrire. Se gli diamo un nome possiamo costruire una frase, parlarne e non solo esserne preda.

Avere ragione. Usare la ragione

Capita spesso di voler avere ragione. Accade nelle discussioni su argomenti vari, in discussioni di coppia, con altri membri familiari e. in generale, in ogni situazione relazionale.

Avere ragione

La ragione può essere definita genericamente come la facoltà di pensare, discernere, stabilire rapporti logici e di porre giudizi. È quindi una facoltà che va “usata”. Tuttavia, spesso riteniamo che la ragione sia qualcosa “da avere”, come se si fosse di fronte a un tribunale che può stabilire una volta per tutte la verità. Avere ragione sembra allora significare aver vinto, aver ridonato dignità alla nostra persona, aver primeggiato. Il vissuto “da tribunale”, tuttavia, prevede una selezione dei dati, sia esterni (ossia le parole dell’interlocutore, l’argomento) sia interni (ossia i nostri vissuti sempre variegati e ambivalenti, fatti di rabbia, ma anche amore).

Certamente, questo si applica solamente in minima parte alle discussioni più “intellettuali”, dove l’esercizio della ragione ha il suo luogo legittimo di applicazione. Nelle relazioni, invece, avere ragione opera un selezione dei fatti (facciamo un’arringa interna, creiamo una linea di difesa e di accusa, cerchiamo prove e indizi). In questo modo, e con questo fine, escludiamo fatti fondamentali per la nostra vita affettiva. Escludiamo i sentimenti implicati e, di fatto, escludiamo l’altro. L’altro viene rappresentato in noi sotto un’unica luce: quella di chi compete per qualcosa. Manca però l’altro per come lo viviamo nella relazione. Manca, nel senso che viene oscurata, la dimensione affettiva: i suoi sentimenti, le sue motivazioni, il passato della relazione, la possibilità di creare un futuro. Alla fine, qualcuno ha “vinto”, qualcuno “ha ragione”. Forse, però, manca qualcosa… sembra che manchi l’uso della ragione.

Avere ragione su se stessi

Questo atteggiamento di selezione dei fatti avviene dentro di noi e coinvolge anche i fatti emotivi che ci riguardano. Capita di trascurare molti dati della nostra vita affettiva, delle nostre motivazioni nel compiere un certo comportamento, nel prendere determinate scelte, nel gestire le relazioni. Spesso sentimenti complessi o emozioni difficili oscurano la nostra disponibilità a comprendere noi stessi e l’altro in modo ampio. Allora cerchiamo spiegazioni, razionalizziamo. Mai con una soddisfazione totale. A guardarle bene, magari “a freddo”, quando è trascorso un po’ di tempo, mostrano delle lacune. “E se avesse voluto dire questo?”, “Forse quando ha detto così intendeva altro…”, “Ero furioso… mi sembrava che ogni sua parola fosse un insulto”, “Cosa sto provando?”, “Questa emozioni oscurano altre emozioni che sto provando?”, “Cosa possono dire di me e della relazione queste emozioni che non sento?”. Questi dubbi sono le premesse per accogliere l’altro e le sue motivazioni e per comprendere meglio le nostre.

Usare la ragione

Se la ragione è definita come la facoltà di pensare, ci possiamo chiedere cosa significhi “pensare”. Possiamo definire il pensare come quell’attività psichica che separa la vita interna da quella esterna e che dona significato in base a questa differenza. Molto di noi è percepito come se fosse parte del mondo esterno. È il nostro modo, inevitabile, di dare significato alla realtà. Riconoscere ciò che è nostro in ciò che è esterno ci permette di avere un quadro più completo della realtà e delle relazioni. Permette di avere dei dati su noi e sull’altro che possono essere elaborati in funzione di una migliore comprensione delle situazioni, anche problematiche che stiamo affrontando.

In questo modo, non si cerca un “colpevole”, una “vittoria”, bensì un chiarimento e le possibili soluzioni. Così pensiero si espande, ossia comprende più sfaccettatture della realtà, più luci e ombre, dettagli e prospettive altrimenti non visti, ma sicuramente attivi. Si pongono domande come: “Di cosa stiamo parlando?”, “Con chi sto parlando?”, “Cosa provo per questa persona?”, “Come mai sento che le sue parole mi feriscono e che devo avere la meglio?”, “Perché sento di dover avere la meglio?”, “Quando mi è capitato di sentirmi così, e con chi?”, “Perché non chiedo di cosa effettivamente si sta parlando?”. Sono alcune domande che possono interrompere un tipo di elaborazione che può portarci ad avere ragione senza usarla. Sono domande che ampliano la visione della realtà di ciò che sta accadendo nella relazione e aiutano a comprendere i nostri bisogni e paure e quelle dell’altro.

Le relazioni si fanno sempre in due. L’altro è però sempre vissuto anche come oggetto delle nostre aspettative, ricordi, relazioni passate. Essere consapevoli di quanto di noi mettiamo nell’altro tutela le nostre relazioni esterne. Ed è un gesto d’amore verso noi stessi.

Cosa è il sostegno psicologico

Cercare un sostegno psicologico è un modo di prendersi cura di sé. La necessità di chiedere aiuto per confrontarsi con quello che sentiamo e che viviamo è un’esigenza molto antica. L’essere umano, durante tutta la sua vita, ha bisogno di incontrarsi con altre menti. È con la relazione empatica con le altre menti che è possibile maturare pensieri e emozioni, creare parole, raccontare le proprie esperienze e dar loro significato.

Nel corso della vita, la mente chiede di avere delle figure che possano accogliere i timori e le paure, ma anche la rabbia, la gioia. Ci sono molte figure che svolgono questa funzione evolutiva, prime fra tutte quelle familiari. Ma anche gli amici, i partner, i professori e chiunque venga sentito come capace di accogliere i nostri bisogni di sostegno.

La nostra mente è forgiata sulle menti degli altri. Cresce con esse.

Lo psicologo può essere una figura di sostegno che offre, tuttavia, un incontro diverso tra menti. Il sostegno si attua sulle potenzialità della persona, nell’ottica di svilupparle. Il sostegno psicologico accoglie i bisogni cercando di chiarirli, di definirli insieme alla persona e di sviluppare in essa gli strumenti di pensiero per farvi fronte. La relazione psicologica si fonda sulla specificità della persona, riconoscendola come unica e irripetibile, con una storia dalla quale emergono certe difficoltà e certi bisogni. Mettendo al centro l’individualità, è possibile non trovare risposte semplici e fornite dall’esterno, ma formulare le domande nate all’interno della persona e sviluppare la capacità di sostegno interna.

Il sostegno psicologico è un dialogo con un’altra mente che mira a creare un dialogo interno costruttivo per appagare i propri bisogni in accordo con le potenzialità e la realtà.