Coronavirus: qualche piccola riflessione

Premessa
La premessa è che questo è virus. Un virus è un elemento oggettivo, col quale non si discute. Per affrontare il virus è inevitabile, indispensabile e saggio riferirsi a chi si occupa di virus con le indicazioni che vengono fornite.
Qui due siti che, probabilmente nei prossimi mesi, saranno fra le nostre bussole.
http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus
Questa è la premessa e deve essere sempre tenuta a mente.
Oltre alla premessa, il COVID-19 ha portato nelle nostre vite qualcosa di nuovo. È arrivato in modo inaspettato, da lontano, silenzioso. Ma poteva arrivare anche da molto vicino. Il virus non ha nazionalità. È un modo che ha la vita di vivere, di adattarsi. Il suo adattamento, in questo caso, è però per noi dannoso.
Il Coronavirus sta avendo un impatto enorme nelle nostre vite, da tutti i punti di vista. Proverò a scrivere qualche riflessione sulle implicazioni psicologiche dell’arrivo di questa forma di vita.
Il limite
Un presidio che è stato adottato è l’isolamento, la quarantena, la restrizione delle attività quotidiane. Questo non per sconfiggere il virus, ma per limitarne la diffusione e permettere al nostro Sistema Sanitario di non collassare. È quindi stato posto un limite. Brutta parola “limite”. Sul piano sociale, ma soprattutto su quello psicologico, il “limite” è qualcosa che non accettiamo di buon grado. È qualcosa che ci fa arrabbiare. Urta contro la nostra onnipotenza, contro quel sentimento che coltiviamo internamente e che ci fa sentire invulnerabili. È difficile sentirsi dire “no”, “attento”, “questo non puoi farlo”. Ci fa sentire privati di quella autonomia e indipendenza che con tanta fatica ci siamo guadagnati. Le indicazioni per il contenimento del virus, del suo propagarsi a tutta la popolazione, possono risonare come un fermo al nostro desiderio di essere “invulnerabili”. E spesso, per contrastare questo penoso sentimento, siamo portati a incrementare proprio la carica onnipotente. Siamo portati alla sottovalutazione del rischio, nostro e altrui. Per non sentirci deboli immaginiamo di essere estremamente forti, esponendoci e esponendo a pericoli. Pericoli stavolta molto seri.
La maggiore onnipotenza ci espone alla massima impotenza.
Riconoscimento dell’altro
L’arrivo del Coronavirus ha anche aperto una porta prima socchiusa: l’altro. E lo ha fatto in una duplice modalità. L’altro è colui che può contagiare e l’altro è colui che possiamo contagiare. In entrambi i casi, c’è qualcuno da considerare che prima era solo in penombra.
È angosciante pensare che ci siano persone che possono trasmettere il virus, farci ammalare, renderci deboli. Questo può alimentare in noi un senso di timore verso gli altri, aumentando sentimenti di ostilità verso “qualcuno”. Nella fantasia di poter controllare e eliminare ciò che ci spaventa, cerchiamo una causa, un “nemico” identificabile da poter controllare. Il virus diventa l’altro e l’altro diventa il virus.
L’altro entra nella nostra vita anche sotto una luce diversa. È l’altro che va protetto, tutelato dal contagio. In prima istanza cominciamo a pensare ai nostri cari più deboli, poi immaginiamo che ci sono altre persone delle quali, in qualche misura, siamo responsabili. Questa apertura porta ad un aumento di spazio psichico da dare ad altro oltre a noi. È un cambiamento grande quello di accogliere altri dentro di noi. E all’inizio possiamo non viverlo come un arricchimento. L’esperienza del Coronavirus ci può dire che fortunatamente non siamo soli, ma che dobbiamo costruire nuove “stanze interne” alla nostra mente. Il lavoro può essere duro.
Cambiamento
L’arrivo del Coronavirus ha portato anche un senso di cambiamento. L’impatto sulla vita quotidiana, le restrizioni a cui siamo sottoposti, l’apertura al riconoscimento dell’altro e il pensiero di qualcosa di difficilmente controllabile sono alcuni dei cambiamenti più riconoscibili. Ma quello che è più spaventoso, forse, è proprio che “qualcosa è cambiato”, che l’equilibrio costruito con fatiche, rinunce e sofferenze, deve modificarsi. Parole come “pandemia” e “contagio globale” sono espressioni che richiamano eventi mai presi in considerazione. Sono parole che annunciano un fattore esterno capace di sbilanciare, se non far crollare, quell’equilibrio tanto sudato. Il Coronavirus sembra raccogliere tutte le ansie che possiamo avere di perdere il nostro equilibrio. Si presta bene a farsi portavoce delle nostre paure. In realtà, è un virus, una forma di vita che proviamo a gestire con gli strumenti sociali (isolamento, quarantena, ecc…) e scientifici (la ricerca) che già altre volte ci hanno salvato. Il virus si fa bandiera dell’esercito dei cambiamenti.
Bisogno di vicinanza
A mio avviso, un aspetto fondamentale che il virus ha colpito, tramite le misure di responsabilità sociale, è il bisogno di vicinanza. Non ci possiamo toccare, dobbiamo stare a distanza di sicurezza. Qualcuno deve rinunciare a frequentare i propri cari. L’isolamento in questo senso è solitudine, privazione del contatto. Contatto che ora ha la maschera terrifica del contagio. Il Coronavirus ci ha lasciati da soli, pulire le superfici, gli occhiali, i telefoni. Ci ha lasciati con l’idea delle mascherine e dei guanti. Il virus si è frapposto fra noi e i nostri affetti, limitando le possibilità di “ricaricarci” affettivamente con la vicinanza e il contatto.
Conclusione
Come detto all’inizio, le premesse sono fondamentali. Quello che stiamo affrontando è un evento naturale, un virus, che deve essere gestito tramite le risorse che abbiamo. Queste risorse sono le indicazioni che ci vengono fornite dalle Istituzioni.
Il fatto che sia un evento naturale poco importa alla nostra affettività e alla nostra vita mentale. Siamo colpiti da una bufera che coinvolge ogni aspetto della nostra vita. Ne ho indicate alcune, che ritengo importanti, per segnalare a noi stessi qualcosa al quale possiamo fare caso quando la bufera interna si fa più forte. Pensarle può aiutare a chiudere qualche finestra nella bufera e a aiutarci a sopportare meglio questa complessa situazione. Forse si soffre in modo diverso se sappiamo cosa ci fa soffrire. Se gli diamo un nome possiamo costruire una frase, parlarne e non solo esserne preda.