Il tempo al tempo del Coronavirus

Il tempo al tempo del Coronavirus

L’attesa

Stiamo vivendo un periodo nuovo e il primo pensiero è “quando finirà?“. È un momento storico (con la S maiuscola perché stiamo vivendo la Storia) che ci vede impegnati nel confronto con la restrizione di molte cose che davamo per scontate. Ormai le abbiamo tutti sotto gli occhi, ci facciamo i conti, le pensiamo e le sogniamo. Le soffriamo.

Le misure di contenimento messe in atto per rallentare l’espansione del Coronavirus mi sembrano incontrare, attualmente, un vissuto che di solito è sullo sfondo, ma che è la tela sulla quale dipingiamo la nostra vita quotidiana: il vissuto del tempo.

È nel tempo che svolgiamo tutte le nostre attività, programmiamo i nostri obiettivi, i nostri progetti, ci collochiamo mentalmente per pensare i ricordi, darci identità e proiettarci nel futuro.

Il tempo sta diventando molto più presente, concreto, costante oggetto dei nostri pensieri. Eppure, se ne perde un po’ la cognizione. L’orologio che prima scandiva gli impegni della nostra vita è sospeso. La lancetta dell’orologio si sforza di arrivare al secondo successivo. Il tempo, ora, è tanto, meno legato all’orologio e maggiormente scandito dalla qualità dei nostri vissuti. La mente cerca qualcosa per poterlo riempire: le cose lasciate in sospeso da molto, interessi trascurati, nuove attività da fare da soli o in famiglia. Il tempo, ora così dilatato e incerto, crea una specie di vuoto. Chiusi in casa, è come se si aprissero le porte anche della nostra “casa interna”, dei nostri pensieri, della nostra intimità, nella quale dobbiamo soggiornare. Il “da farsi” che portava quotidianamente a pensare “fuori di noi”, è temporaneamente sospeso e ci riporta al nostro interno.

Ma il tempo che è cambiato maggiormente è quello globale. Le misure di contenimento hanno aperto un tempo nuovo, quello che segna l’ora della fine di quelle misure. È quella “lancetta” che fatica ad arrivare al secondo successivo, che rimane in tensione, che procura tensione.

L’arrivo della pandemia da Coronavirus ha creato un “prima”, un “dopo” e un “ora”.

Prima

Il “prima” è carico di vissuti nostalgici, talvolta tristi, talvolta felici. È il passato che pensavamo sarebbe stato come il futuro. Un passato che appariva come la nostra base per costruire chi siamo e chi saremmo voluti essere. A volte, torniamo volontariamente a questi ricordi, a queste sensazioni e emozioni, per aprire un varco nel buio e scaldarci con la speranza che presto tutto questo finirà. A volte ci prendono alla sprovvista, con grande struggimento, rivestendo i nostri pensieri con un velo di tristezza. In questo momento, il passato è la cosa più certa che abbiamo.

Dopo

Il “dopo” ha i caratteri dell’incertezza. Si modula quotidianamente (ma forse quasi ogni ora) in base alle informazioni che cerchiamo o nelle quali ci imbattiamo. Ogni tanto si avvicina, quando arriva un farmaco promettente o un dato epidemiologico positivo. Ogni tanto si allontana, perdendosi nei rinvii delle misure di contenimento o nelle tempistiche per lo sviluppo di un vaccino. È un “dopo” che promuove il ritorno al passato, al “prima” e che attiva quelle sensazioni nostalgiche che spesso ci avvolgono. La speranza di un ritorno al passato può anche portare a non vedere chiaramente il cambiamento in atto, esponendo a comportamenti al momento rischiosi. Adesso il futuro è “dopo”, “quando sarà finito tutto”. Ma è un pensiero che non ha (ancora) oggetto e si colma di fantasie, speranze, angosce.

Ora

Il “prima” e il “dopo” si incontrano nell’”ora” sotto forma di attesa. L’attesa è un sentimento difficile per la mente. Comporta rimandare la soddisfazione dei bisogni, dei desideri. Significa sostare in una condizione mentale che non dà risposte. Anzi, spesso è la fonte di molte domande, non sempre legate al problema, ma specchio delle nostre preoccupazioni. L’attesa ci fa anche sentire senza risorse, quasi impotenti, perché ci pone in una condizione di passività. Il tempo dell’ora” si colma dei ricordi del passato al quale si vorrebbe tornare e delle aspettative di un futuro che restituisca il tempo dell’orologio a cui eravamo abituati.

Attendere

Quindi, “attendere” significa sopportare, sostenere, un “ora” che non può tornare ad essere “prima” e non è ancora “dopo”. Un carico pesante. E anche poco conosciuto. Nell’attesa sembra di non poter “fare”, di “perdere tempo”, quasi che il nostro essere sia confinato all’azione. L’attesa è invece anche il luogo e il tempo del nostro sentire, è un momento in cui siamo più vicini a noi stessi. Se prestiamo attenzione, possiamo sentire il ribollire dei nostri sentimenti, lo scricchiolio dei nostri pensieri, il corpo dei nostri ricordi. Attendere significa dare senso alla nostra vita interna, starle vicino e camminare in essa, scoprire stanze poco frequentate, aprire finestre di comprensione. Attendere ha il valore di riprendere una temporalità interna in cui i secondi sono i sentimenti spesso dimenticati, le emozioni talvolta incomprese, i pensieri poco chiari ma potenti. Nel momento in cui attendiamo qualcosa siamo in compagnia del più importante dei nostri vissuti: il tempo interno.

È sicuramente un momento diverso da quello a cui siamo abituati: il tempo dell’orologio, dei progetti, del mondo esterno. Non ci sono le solite cose da fare, quelle che quotidianamente ci definiscono e ci proiettano nel futuro. Sembra che siamo chiamati a soggiornare dentro noi stessi, a “essere” noi stessi, a diventare noi stessi nell’attesa che arrivi il “dopo”.

Il supporto psicologico on-line

Il supporto psicologico on-line

La situazione attuale data dalle restrizioni necessarie per far fronte al Coronavirus impone dei grandi sacrifici alla nostra libertà di movimento e di incontro.

Lo studio dello psicologo non ne è, naturalmente, immune.

Sicuramente niente può sostituire del tutto la presenza di due persone nello studio, nel suo clima accogliente e sicuro. Due persone si trovano in una stanza e per un breve, ma molto intenso periodo, sospendono il tempo per entrare nel tempo degli affetti. Le parole hanno un suono corposo, vivo, risuonano e vibrano. I significati si materializzano.

Anche tradizionalmente, lo psicologo ha uno studio. Esiste un luogo in cui si va a parlare di noi stessi con un’altra persona. Un luogo che ha una dimensione, degli odori, delle sensazioni tattili.

Questo periodo, tuttavia, sembra richiedere anche un’alternativa, magari solamente confinata al momento di emergenza. La possibilità di consulenze on-line sembra essere l’alternativa migliore. Infatti, è capace di creare un ambiente in cui è possibile un “contatto” e un lavoro. Lo strumento on-line può dare la “presenza”, sicuramente virtuale, dell’altra persona, ma la rende visibile, presente, appunto. La mente accoglie questa possibilità e si mobilita per creare uno “spazio” condiviso. Si può dire che abbassa le luci, comincia a escludere alcuni stimoli, si concentra sulle parole e sul tono di voce. Inizia un processo di “creazione della presenza” in cui l’altro diventa un elemento del nostro pensiero con cui è possibile e sicuro parlare.

Sicuramente gli aspetti della realtà sono più presenti. Deve essere trovata una stanza in cui si sa che non transiterà nessuno, con il maggior silenzio possibile. Deve essere trovata anche una situazione comoda dove sedersi, dove potersi rilassare.

Gli aspetti tecnologici possono creare qualche problema: il microfono può non funzionare per un attimo, la linea può interrompersi, l’audio può non essere eccellente. Sono alcune delle difficoltà poste dal non poter essere nella stessa stanza. In questo periodo, però, sembrano rappresentare degli ostacoli che possono essere superati in favore di uno spazio di lavoro psicologico, da iniziare o da mantenere. Di fatto, la tecnologia è uno degli strumenti che abbiamo sviluppato proprio per gestire al meglio la realtà in funzione dei nostri bisogni.

Una distanza fisica non è necessariamente una distanza emotiva.

Coronavirus: qualche piccola riflessione

Premessa

La premessa è che questo è virus. Un virus è un elemento oggettivo, col quale non si discute. Per affrontare il virus è inevitabile, indispensabile e saggio riferirsi a chi si occupa di virus con le indicazioni che vengono fornite.

Qui due siti che, probabilmente nei prossimi mesi, saranno fra le nostre bussole.

http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus

https://www.medicalfacts.it

Questa è la premessa e deve essere sempre tenuta a mente.

Oltre alla premessa, il COVID-19 ha portato nelle nostre vite qualcosa di nuovo. È arrivato in modo inaspettato, da lontano, silenzioso. Ma poteva arrivare anche da molto vicino. Il virus non ha nazionalità. È un modo che ha la vita di vivere, di adattarsi. Il suo adattamento, in questo caso, è però per noi dannoso.

Il Coronavirus sta avendo un impatto enorme nelle nostre vite, da tutti i punti di vista. Proverò a scrivere qualche riflessione sulle implicazioni psicologiche dell’arrivo di questa forma di vita.

Il limite

Un presidio che è stato adottato è l’isolamento, la quarantena, la restrizione delle attività quotidiane. Questo non per sconfiggere il virus, ma per limitarne la diffusione e permettere al nostro Sistema Sanitario di non collassare. È quindi stato posto un limite. Brutta parola “limite”. Sul piano sociale, ma soprattutto su quello psicologico, il “limite” è qualcosa che non accettiamo di buon grado. È qualcosa che ci fa arrabbiare. Urta contro la nostra onnipotenza, contro quel sentimento che coltiviamo internamente e che ci fa sentire invulnerabili. È difficile sentirsi dire “no”, “attento”, “questo non puoi farlo”. Ci fa sentire privati di quella autonomia e indipendenza che con tanta fatica ci siamo guadagnati. Le indicazioni per il contenimento del virus, del suo propagarsi a tutta la popolazione, possono risonare come un fermo al nostro desiderio di essere “invulnerabili”. E spesso, per contrastare questo penoso sentimento, siamo portati a incrementare proprio la carica onnipotente. Siamo portati alla sottovalutazione del rischio, nostro e altrui. Per non sentirci deboli immaginiamo di essere estremamente forti, esponendoci e esponendo a pericoli. Pericoli stavolta molto seri.

La maggiore onnipotenza ci espone alla massima impotenza.

Riconoscimento dell’altro

L’arrivo del Coronavirus ha anche aperto una porta prima socchiusa: l’altro. E lo ha fatto in una duplice modalità. L’altro è colui che può contagiare e l’altro è colui che possiamo contagiare. In entrambi i casi, c’è qualcuno da considerare che prima era solo in penombra.

È angosciante pensare che ci siano persone che possono trasmettere il virus, farci ammalare, renderci deboli. Questo può alimentare in noi un senso di timore verso gli altri, aumentando sentimenti di ostilità verso “qualcuno”. Nella fantasia di poter controllare e eliminare ciò che ci spaventa, cerchiamo una causa, un “nemico” identificabile da poter controllare. Il virus diventa l’altro e l’altro diventa il virus.

L’altro entra nella nostra vita anche sotto una luce diversa. È l’altro che va protetto, tutelato dal contagio. In prima istanza cominciamo a pensare ai nostri cari più deboli, poi immaginiamo che ci sono altre persone delle quali, in qualche misura, siamo responsabili. Questa apertura porta ad un aumento di spazio psichico da dare ad altro oltre a noi. È un cambiamento grande quello di accogliere altri dentro di noi. E all’inizio possiamo non viverlo come un arricchimento. L’esperienza del Coronavirus ci può dire che fortunatamente non siamo soli, ma che dobbiamo costruire nuove “stanze interne” alla nostra mente. Il lavoro può essere duro.

Cambiamento

L’arrivo del Coronavirus ha portato anche un senso di cambiamento. L’impatto sulla vita quotidiana, le restrizioni a cui siamo sottoposti, l’apertura al riconoscimento dell’altro e il pensiero di qualcosa di difficilmente controllabile sono alcuni dei cambiamenti più riconoscibili. Ma quello che è più spaventoso, forse, è proprio che “qualcosa è cambiato”, che l’equilibrio costruito con fatiche, rinunce e sofferenze, deve modificarsi. Parole come “pandemia” e “contagio globale” sono espressioni che richiamano eventi mai presi in considerazione. Sono parole che annunciano un fattore esterno capace di sbilanciare, se non far crollare, quell’equilibrio tanto sudato. Il Coronavirus sembra raccogliere tutte le ansie che possiamo avere di perdere il nostro equilibrio. Si presta bene a farsi portavoce delle nostre paure. In realtà, è un virus, una forma di vita che proviamo a gestire con gli strumenti sociali (isolamento, quarantena, ecc…) e scientifici (la ricerca) che già altre volte ci hanno salvato. Il virus si fa bandiera dell’esercito dei cambiamenti.

Bisogno di vicinanza

A mio avviso, un aspetto fondamentale che il virus ha colpito, tramite le misure di responsabilità sociale, è il bisogno di vicinanza. Non ci possiamo toccare, dobbiamo stare a distanza di sicurezza. Qualcuno deve rinunciare a frequentare i propri cari. L’isolamento in questo senso è solitudine, privazione del contatto. Contatto che ora ha la maschera terrifica del contagio. Il Coronavirus ci ha lasciati da soli, pulire le superfici, gli occhiali, i telefoni. Ci ha lasciati con l’idea delle mascherine e dei guanti. Il virus si è frapposto fra noi e i nostri affetti, limitando le possibilità di “ricaricarci” affettivamente con la vicinanza e il contatto.

Conclusione

Come detto all’inizio, le premesse sono fondamentali. Quello che stiamo affrontando è un evento naturale, un virus, che deve essere gestito tramite le risorse che abbiamo. Queste risorse sono le indicazioni che ci vengono fornite dalle Istituzioni.

Il fatto che sia un evento naturale poco importa alla nostra affettività e alla nostra vita mentale. Siamo colpiti da una bufera che coinvolge ogni aspetto della nostra vita. Ne ho indicate alcune, che ritengo importanti, per segnalare a noi stessi qualcosa al quale possiamo fare caso quando la bufera interna si fa più forte. Pensarle può aiutare a chiudere qualche finestra nella bufera e a aiutarci a sopportare meglio questa complessa situazione. Forse si soffre in modo diverso se sappiamo cosa ci fa soffrire. Se gli diamo un nome possiamo costruire una frase, parlarne e non solo esserne preda.

Le cure della pelle nella formazione dell’Io

Introduzione

La pelle rappresenta il limite invalicabile del “personale” in senso stretto. Essa è “personale” nella misura in cui la sensibilità alimenta il mondo della persona, con la percezione degli oggetti fisici, con la percezione del mondo rappresentativo, e con le coloriture affettive (e perciò sensibili) che queste percezioni comportano. La pelle è, quindi, il luogo in cui l’Io incontra il mondo esterno, “diventando” in parte questo e differenziandosi da questo.

Lo sviluppo del senso di separatezza e la personificazione del soggetto, tuttavia, non sono eventi tutto-o-nulla che si verificano immediatamente dopo la nascita e che si manifestano nel pieno delle loro caratteristiche sin da subito. Le qualità e le funzioni dello psichismo della persona, infatti, devono attraversare un percorso che inizia con il non-differenziato. All’origine della vita, lo psichismo ancora non esiste in modo completo e integrato, ma si presenta in uno stato in cui fisiologia e psicologia non si sono ancora differenziate, e in uno stato di simbiosi con l’ambiente maternale. In queste dinamiche di cura, in cui la madre, facilitata dall’identificazione con i bisogni del piccolo, risponde in maniera adeguata, assumono un rilievo fondamentale gli scambi di “contatto”.

L’importanza del contatto, e perciò della pelle, tra madre e figlio è stata sottolineata da vari autori, i quali hanno evidenziato, a vario titolo, il ruolo che questo gioca nella costituzione dello psichismo. Gli sviluppi post-freudiani della psicoanalisi, infatti, hanno visto l’impegno di moltissimi autori (Klein, Bion, Winnicott, Bowlby) non più sul fronte della relazione edipica, quanto sulla relazione primaria che lega la madre e il neonato. La configurazione dell’apparato psichico edipico, infatti, è l’esito (non scontato) di questa relazione, che avviene nell’ambiente maternale il quale, oltre a quello strettamente materno, include anche il contesto più ampio che la sorregge e che, eventualmente, ne fa le veci. Nella considerazione di questo processo evolutivo, gli autori hanno rimesso in discussione alcuni assiomi psicoanalitici, come la centralità della pulsione sessuale e la sua organizzazione in tappe, per far risaltare una pulsione che appare più originaria o, quantomeno indipendente: la pulsione di attaccamento.

L’obiettivo di questo breve scritto è quello di sottolineare il ruolo che le cure della pelle rivestono per la formazione dell’Io. Verranno, quindi, proposte le riflessioni di tre autori, i quali hanno messo in luce l’importanza della relazione tra il corpo del caregiver e quello del bambino come luogo di appoggio primario per la costruzione del funzionamento psichico, sia sano che patologico. Il lavoro vuole sottolineare una linea di continuità tra la tendenza all’attaccamento e alla ricerca di un contatto con il caregiver, il legame corporeo che in questo attaccamento si sviluppa e il primato che la pelle riveste in qualità di appoggio per la creazione di “immagini” che faranno da base ad alcune funzioni dell’Io. Dunque, dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby, il lavoro prenderà in considerazione le cure di contatto madre/bambino fondamentali per il Sé evidenziate da Winnicott, per terminare con l’approfondimento del ruolo della pelle nell’Io in formazione proposto da Anzieu. Il tema generale, pertanto, è la rilevanza del corpo e, in particolare, della pelle, all’inizio del funzionamento e della strutturazione dell’Io psichico.

Il contatto nella teoria dell’attaccamento.

La teoria dell’attaccamento proposta da Bowlby si costruisce sull’osservazione degli effetti che ha la deprivazione materna e sull’importanza di una pulsione al legame con questa che si evidenzia come indipendente dal soddisfacimento della pulsione parziale orale sottolineata dalla psicoanalisi.

Osservazioni fondamentali per la costruzione della teoria dell’attaccamento furono quelle di Harlow sulle scimmie Rhesus. Harlow elaborò degli esperimenti nei quali venivano confrontati i comportamenti di scimmie poste in contatto con un simulacro di metallo rappresentante la madre. I simulacri erano di due tipi: uno con il biberon, ma senza pelliccia, e uno senza biberon, ma coperta di una stoffa morbida, spugnosa e pelosa. A dispetto della presenza del biberon, e quindi dell’oggetto atto a soddisfare la pulsione parziale orale, i piccoli di scimmia mostravano una preferenza per il simulacro ricoperto di pelliccia.

Hermann sottolinea come per i piccoli di mammifero sia attiva una pulsione di aggrappamento al pelo della madre volta a procurare sicurezza. Questa pulsione risulta oltremodo ridotta negli esseri umani, nei quali la superficie del corpo ricoperta di peli si limita al cranio, alle zone intorno agli orifizi corporei del volto e al tronco. Nella specie umana, la pulsione di attaccamento assume un’importanza centrale: l’assenza di pelliccia spinge verso la ricerca di un tipo di contatto differente, quello pelle a pelle.

Bowlby definisce l’attaccamento come un legame affettivo rivolto a una persona specifica e non intercambiabile, di natura persistente e non transitoria e dotato di significatività sul piano affettivo. L’attaccamento è una disposizione innata, essenzialmente stabile durante il ciclo di vita, che si manifesta attraverso dei comportamenti di attaccamento, messi in atto per ricercare la prossimità del caregiver dal quale il bambino deriva sicurezza e protezione. La funzione biologica, quindi, è quella della protezione dai pericoli che non possono essere ancora affrontati, a causa dell’immaturità, finalizzata alla sopravvivenza. Il sistema di attaccamento si attiva in situazioni di stress, e fa mettere in atto tutta una serie di comportamenti atti a ridurre o eliminare la distanza dalla figura di attaccamento. Secondo Bowlby, il comportamento di attaccamento corrisponde ad un sistema comportamentale, ossia ad un’organizzazione psicologica interna che comprende sia schemi di rappresentazione del sé e della figura di attaccamento, sia schemi comportamentali che hanno radici biologiche, differenziati da quelli che regolano il comportamento alimentare, sessuale e di esplorazione. I comportamenti di attaccamento del piccolo vengono modulati dallo schema comportamentale dei genitori, i quali hanno il compito di creare un clima di serenità e disponibilità affinché ogni esigenza del bambino possa essere espressa nella sicurezza di trovare risposte adeguate e non eccessivamente dilazionate nel tempo. Un atteggiamento positivo da parte dei genitori fornisce ai figli quella che Bowlby chiama base sicura, che incoraggia all’esplorazione e all’autonomia. Il bambino i cui genitori hanno fornito una base sicura di attaccamento, vivono un sentimento di presenza e disponibilità della figura di attaccamento che gli consente di esplorare il mondo esterno nella fiducia di ritrovare il genitore al ritorno. Il ruolo delle figure di attaccamento che forniscono una base sicura consiste nell’essere disponibili, pronte a rispondere quando chiamate in causa, per incoraggiare e dare assistenza, ma intervenendo attivamente solo quando è necessario.

Le relazioni di attaccamento vengono interiorizzate in Modelli Operativi Interni, ossia modelli rappresentativi delle figure di attaccamento, di sé, e delle relazioni tra sé e le figure di attaccamento, che sono stati costruiti in base alle esperienze delle interazioni precoci con quelle figure. Queste prime rappresentazioni di sé e degli altri significativi e delle reciproche interazioni assumono un valore regolativo e predittivo per le future interazioni e modalità di percepire sé e gli altri in generale.

Durante la relazione di attaccamento, quindi, lo psichismo del neonato si sviluppa in dipendenza delle cure fornite dalla madre (e dall’ambiente in generale che accoglie la diade). Il bambino piccolo esperisce tutta una serie di bisogni, che vive nei termini di uno stato di tensione, i quali esigono un intervento dall’esterno al fine di essere placati. Nel tempo che intercorre tra l’esperienza della tensione e la soddisfazione del bisogno, si crea uno spazio psichico atto ad accogliere la venuta dell’oggetto-madre: la fantasmatizzazione primaria. Mentre questo fenomeno è sempre presente, il presentarsi della risposta materna non è ovvio. Una relazione in cui la madre anticipa la risposta ai bisogni del piccolo, sostituendosi alla sua psiche, soffoca l’apertura dello spazio mentale necessario ad accogliere l’oggetto-madre e, tramite esso, il mondo esterno. In modo analogo, ma con effetti diversi, una madre che risponde in modo altalenante o in tempi troppo lunghi, altera lo spazio mentale, che risulta frammentato, così come l’Io del bambino, il quale vivrà un’angoscia abbandonica, data dall’incertezza del presentarsi della madre.

Nella dinamica dei bisogni, delle attese e delle soddisfazioni si gioca la costruzione dello psichismo. I bisogni, come detto, non si limitano al percorso di appoggio della libido sessuale sulle diverse zone erogene, ma investono primariamente la relazione in se stessa, in quanto unico luogo possibile della sopravvivenza. È merito di Bowlby l’aver posto l’accento sull’importanza della pulsione di attaccamento, distinta da quella sessuale, nella costituzione dello psichismo della persona. La pulsione di attaccamento, che l’uomo condivide con diverse specie animali, si espleta primariamente come legame di “contatto”, di prossimità, di corpo. Durante il primo periodo post-natale la pulsione di attaccamento rende possibile, coadiuvata dalla “preoccupazione materna primaria”, l’attuazione delle cure della madre/caregiver verso il figlio. Queste cure sono effettuate primariamente attraverso gli stimoli tattili e interessano il corpo del piccolo: il sorreggerlo, il manipolarlo e la proposizione del mondo. È in questa relazione anzitutto corporea che trova fondamento la strutturazione del Sé del bambino. La pelle, in questo contesto, rappresenta il luogo privilegiato degli scambi tra i due partner, ed è la base, grazie alle sue funzioni, delle funzioni che saranno poi fatte proprie dall’Io.

Il Sé sorretto e manipolato: Winnicott.

Durante la relazione di attaccamento si ha tutto quel complesso di interazioni, rimandi, domande, risposte tra i partecipanti, che dà luogo alla strutturazione dell’apparato psichico del piccolo. È infatti in essa che il bambino esprime i suoi bisogni, richiamando la presenza della madre e aprendo, nell’attesa della risposta, lo spazio psichico per accogliere l’oggetto-materno e, con esso, la possibilità di una realtà altra da sé. In questa relazione, quindi, si determina la costituzione dell’Io, con le qualità che gli sono proprie di esame di realtà, di difesa dall’angoscia, di tolleranza della frustrazione, di controllo degli impulsi, eccetera.

Le prime fasi della relazione di attaccamento, tuttavia, sono caratterizzate da un legame che è totalmente somatico, in una continuità modificata con la vita intrauterina. Il neonato si trova “avvolto” dalle braccia e dal corpo della madre così come lo era dal liquido amniotico. Il bisogno della prossimità, dell’attaccamento durante tutto il ciclo di vita sembra richiamare la necessità di sentire sempre operante il contatto con la pelle della madre. L’esperienza di tale contatto, e dei contatti di sostegno e di manipolazione, assume il valore psichico, quando introiettato come base sicura, di un mantello protettivo. La protezione psichica è quella dalle angosce di base, ma anche dalle evenienze che presenta la realtà: il mantello-pelle, quindi, sembra avere, in sé alcune caratteristiche che si ritroveranno poi nell’Io.

L’ambiente maternale accoglie il neonato primariamente attraverso la madre. Questa, sebbene figura non strettamente indispensabile alla sopravvivenza e allo sviluppo psichico, è dotata di uno strumento in più per relazionarsi con l’Io nascente del piccolo: la preoccupazione materna primaria. Grazie a questa condizione biologico-psicologica la madre è facilitata nell’identificazione con i bisogni del piccolo, ai quali può rispondere in maniera adeguata. Winnicott ha posto l’accento sul ruolo che svolge la madre reale, e non solo quella fantasmatica, nelle cure del piccolo che portano ad un sano sviluppo dello psichismo. Il concetto di preoccupazione materna primaria è la controparte di un’unità data dalla madre e dal bambino, la quale si caratterizza, specialmente nelle fasi iniziali, come un’unità di pelle. Infatti, ogni contatto, ogni scambio, è fornito dalla pelle dei due partecipanti, esperienza che l’Io in nuce del neonato non distingue come contatto “tra” sé e altro, ma che vive come “inderivata”. Secondo Winnicott, il neonato vive la primissima relazione in uno stato di dipendenza assoluta, ossia uno stato in cui l’infante non ha nessuna nozione delle cure materne, in cui esprime dei bisogni senza avere il controllo sul loro soddisfacimento. È compito della madre identificarsi con tali bisogni e rispondere ad essi in modo adeguato. Il piccolo vive un’esperienza di onnipotenza che gli fa vivere la madre che placa i suoi bisogni come indistinta da sé. La madre deve fornire al piccolo un contesto in cui il seno/soddisfazione giunga proprio nel momento in cui il bisogno si manifesta, in modo cioè che esso sia sotto il suo controllo magico. Le risposte adeguate, nelle modalità e nei tempi, permettono al piccolo di preservare il suo stato di continuità dell’esistenza. La continuità dell’esistenza deve essere preservata al fine di far sviluppare la naturale tendenza all’integrazione dell’Io inintegrato del neonato. La devozione della madre, in questa fase, è ricompensata dal fatto che il processo di sviluppo dell’infante non viene distorto.

La condizione di dipendenza assoluta cede il passo a quella di dipendenza relativa, in cui l’adattamento totale della madre cede il posto ad una relazione che introduce elementi di frustrazione. Il de-adattamento di questa fase è effettuato dalla madre in maniera graduale e calibrata in base alla rapidità degli sviluppi manifestati dall’infante. Questa “calibrazione” sottolinea la capacità della madre di identificarsi con il piccolo, sia nei bisogni che nelle nascenti acquisizioni; un tale processo è possibile solamente nella misura in cui la madre è “se stessa” e non recita una parte seguendo una sorta di “copione”. In questa seconda fase relazionale, la ricompensa per la madre consiste nel fatto che il piccolo comincia ad essere in un certo senso consapevole della dipendenza; l’assenza della madre è tollerata per un certo periodo, poi compare l’ansia. Tale ansia è il segno che il piccolo si è formata la rappresentazione dell’oggetto-madre come “persona intera”, con la quale può intrattenere scambi comunicativi fondati sulla reciprocità.

Verso i due anni si apre la fase verso l’indipendenza: il piccolo inizia a sviluppare i mezzi per affrontare l’allontanamento dalla madre. Egli giunge ad avere queste capacità tramite la conservazione dei ricordi delle cure ricevute, la proiezione dei bisogni personali e l’introiezione dei vari aspetti delle cure, con lo sviluppo della fiducia nell’ambiente.

Il percorso dalla dipendenza all’indipendenza delineato da Winnicott si articola in tre processi fondamentali che determinano lo sviluppo dell’Io, ciascuno dei quali collegato ad un aspetto particolare dell’accudimento materno. Questi processi, che non si pongono in una sequenzialità di tappe, ma che sono attivi, sovrapponendosi durante tutto il corso della vita, sono: integrazione, personificazione e relazione d’oggetto. Gli aspetti dell’accudimento materno associati a questi processi sono l’holding, l’handling e l’object presenting.

L’holding trova la sua massima espressione durante la fase della dipendenza assoluta. Il termine “holding” significa sia tenere in braccio che sostenere in senso lato. Fa riferimento ad un rapporto tridimensionale o spaziale tra il corpo della madre e quello dell’infante cui si aggiunge gradualmente l’elemento tempo. L’integrazione è il processo di organizzazione della realtà psichica individuale che porta il soggetto alla condizione di percepire la propria unità e la propria esistenza, secondo la formula “Io sono”. Nella fase di dipendenza assoluta il piccolo si trova in uno stato di inintegrazione; l’integrazione interviene utilizzando schemi innati corporei, motori e sensoriali, sui quali si innesta il senso nascente di continuità di esistere. In questa fase, l’Io del neonato è totalmente immaturo, ma vi è già la presenza di una rudimentale elaborazione immaginativa del puro funzionamento corporeo che rende possibile la continuità del senso di esistere e con essa, l’inizio dell’integrazione. Questo processo integrativo è reso possibile dagli accudimenti materni nella forma dell’holding. La madre “sostiene” il piccolo, lo “avvolge” con il suo corpo e evita, grazie all’empatia garantita dalla preoccupazione materna primaria, che si verifichino degli “urti”, ossia delle stimolazioni interne e esterne che l’Io non ancora sviluppato del piccolo non può sostenere e che determinerebbero una discontinuità nel suo senso di esistere. La madre, con questo sostenere, fornisce anche un Io di sostegno o ausiliario al piccolo. L’integrazione non viene raggiunta e stabilizzata da subito; il piccolo esperirà delle oscillazioni tra momenti di integrazione e di inintegrazione. Una volta che la madre avrà fornito un sostegno al suo Io e lo avrà reso più stabile, il piccolo si abbandonerà a momenti di inintegrazione. Una volta che l’ambiente supportivo verrà vissuto come costante e affidabile, i momenti di inintegrazione si svolgeranno anche nelle situazioni di “solitudine in presenza di qualcuno”, dove quel qualcuno è la madre, la cui presenza supportiva permette al piccolo di abbandonare temporaneamente lo sforzo integrativo.

L’handling è alla base della personalizzazione, che può essere descritta come l’acquisizione di uno schema corporeo proprio, in cui la psiche si radica nel soma e in cui la pelle diviene un membrana che separa e mette in contatto il me da non-me. L’handling è la capacità della madre di maneggiare in modo naturale il corpo del bambino, senza produrgli urti, facendogli provare la sensazione che tutte le parti del corpo sono connesse in un’unità. Queste manovre di manipolazione permettono al bambino di sentire il proprio corpo sia come parte sia come contenitore del suo Sé. L’esistenza psicosomatica si fonda sul collegamento delle esperienze motorie, sensoriali e funzionali dell’infante con la nuova situazione di unità integrata. La costituzione di una membrana limitante data dalla pelle corrisponde alla separazione tra un mondo interno, contenuto dalla pelle, e un mondo esterno. L’object presenting corrisponde al momento in cui si dà la possibilità, per il piccolo, di stabilire relazioni oggettuali. La relazione oggettuale può avvenire solamente se l’ambiente è capace di presentare gli oggetti di cui ha bisogno in modo tale che il piccolo li viva come una sua creazione. Il bambino ha un bisogno che non riesce a formulare e che determina in lui un’attesa vaga; in risposta a questo bisogno la madre presenta un oggetto o una manipolazione adeguati in modo tale che il piccolo cominci ad aver bisogno proprio di ciò che gli è stato presentato. Allo stesso tempo, avviene un collegamento tra il bisogno e l’oggetto soddisfacente, che pone le basi per la consapevolezza dei propri stati interni. Questo “creare” la realtà è un’esperienza di onnipotenza che la madre piano piano stempera e che fa sviluppare al bambino la convinzione che il mondo contenga proprio ciò di cui ha bisogno. Quando le esperienze di onnipotenza sono totali, gli oggetti sono degli oggetti-soggettivi; con la crescita, le “buone” frustrazioni dell’onnipotenza e l’accesso ai fenomeni transizionali, il bambino incontrerà la realtà, la quale rimarrà comunque pervasa dalla soggettività.

La base dell’Io nelle cure della pelle.

La teoria dell’attaccamento e quella di Winnicott, pongono un’enfasi particolare sul contatto tra i due partecipanti alla relazione di cura primaria. La prima mette in luce come vi sia una pulsione indipendente da quella sessuale nel legame con il caregiver, che stimola il piccolo a ricercare la sua prossimità per ricavarne sicurezza e conforto. Il caregiver, stimolato dai segnali di attaccamento, ristabilisce il contatto e provvede a fornire le risposte adeguate ai bisogni espressi dal bambino. In questa relazione si stabilisce la costanza d’oggetto e, con essa, l’Io capace di simbolizzare. La teoria di Winnicott specifica i fenomeni di contatto che avvengono durante la relazione primaria e che sono alla base della costituzione dell’Io.

In entrambi i casi, la matrice di tale sviluppo è data dalla relazione dei due corpi di madre e figlio, relazione in cui la pelle si classifica come primo luogo di costruzione dell’Io. Seguendo Didier Anzieu, quindi, si può pensare alla pelle come un pre-Io, come ad un abbozzo di Io presente alla nascita che si pone in linea di continuità con le esperienze sensoriali della vita intrauterina, dove pelle e sistema nervoso si sviluppano a partire dalla matrice comune dell’ectoderma. Il concetto di pre-Io può essere assimilato alla rudimentale elaborazione immaginativa del puro funzionamento corporeo alla base del senso di continuità di esistere che Winnicott postula come presente già alla nascita. Il pre-Io, o Io-pelle, è innanzitutto corporeo, ed è un precursore dell’identità personale e del senso di realtà dell’Io psichico. Alla nascita, l’Io non ancora maturo si appoggia sulla pelle e sulle sue funzioni e stimolazioni per rappresentare se stesso come Io che è capace di contenere dei contenuti psichici. La pelle, come primo luogo di strutturazione, presenta delle funzioni che si sviluppano durante la relazione di accudimento e che, grazie a questo, forniscono l’appoggio per lo sviluppo delle funzioni dell’Io. A donare funzionalità alla pelle è la relazione di attaccamento, in cui si verificano le cure dell’ambiente maternale che, prima di ogni altra cosa, si rivolgono alla pelle, “circondandola” con stimolazioni tattili (così come avveniva nell’utero). L’ambiente maternale si cura del piccolo mediante azioni rivolte al suo corpo, con massaggi, sostegno, pulizia, alimentazione, eccetera. Lo spazio maternale deve rispondere ai bisogni lasciando uno spazio tra sé e la pelle del piccolo, in modo che egli possa sperimentare il bisogno, comunicarlo con le modalità sue proprie e attendere una risposta adeguata. L’ambiente, come detto, non deve né anticipare i bisogni del piccolo, soffocandolo con il suo involucro, né divenire troppo assente o puntiforme, pena la non costituzione dell’Io o la sua formazione come una pelle “bucata”. Lo spazio maternale apre lo spazio psichico per l’attesa dell’oggetto-madre solamente se non avviluppa l’Io immaturo con soddisfazioni di bisogni anticipati (e probabilmente fraintesi e proiettati) e se non si propone come uno spazio incostante. La pelle è l’interfaccia tra la madre “devota” e l’Io immaturo del neonato; è il tramite per le loro comunicazioni senza intermediari. Anzieu immagina l’esistenza di una pelle comune tra madre e bambino che assicura a quest’ultimo la possibilità di comunicare i suoi bisogni e alla madre, aiutata dallo stato di preoccupazione primaria, la comprensione dei bisogni e le risposte a questi. Il fantasma della pelle comune sembra la condizione comunicativa alla base della dipendenza assoluta, in cui madre e figlio sono uniti simbioticamente. Con l’istaurarsi della dipendenza relativa, tale pelle deve essere separata e personalizzata, in modo da poter cogliere la madre come oggetto a sé.

Il neonato, dunque, nasce come pelle, la quale fornisce il primo appoggio per lo sviluppo delle funzioni dell’Io. Anzieu richiama Freud nel sostenere che l’Io si appoggia nel suo emergere dall’Es, sulle funzioni della pelle, la quale fornisce una sensazione che è sia quella dell’oggetto toccato, sia dell’agente che tocca. Queste sensazioni rimandano, dunque, sia ad un esterno che ad un interno psichico, il quale le raccoglie come “proprie”. Il corpo, specialmente quello tattile, appare essere il pre-Io che necessita e cerca l’attaccamento con l’ambiente maternale, il quale esercita la sua influenza per integrare le sue parti, per renderle proprie di una persona che si relaziona con persone altre da sé e con la realtà.

Didier Anzieu si richiama al concetto freudiano dello sviluppo delle funzioni dell’Io per appoggio su quelle corporee, per sostenere che la pelle fornisce all’apparato psichico le rappresentazioni costitutive dell’Io e delle sue principali funzioni. L’autore stabilisce una continuità in cui alcune funzioni biologiche della pelle forniscono l’appoggio, per trasformazione, alle funzioni psichiche.

Una prima funzione riportata dall’autore è quella della pelle come sostegno. La pelle biologicamente sostiene lo scheletro e la muscolatura e questo sostegno è fornito dalla madre tramite l’holding, che sostiene il corpo del bimbo, donandogli unità, solidità e mantenendo la vita psichica in grado di funzionare nei momenti di veglia. La funzione psicologica della conservazione della vita psichica deriva dall’introiezione dell’holding materno, dal sostegno che la madre fornisce al corpo del piccolo promuovendo l’integrazione con il contatto dei loro corpi e con le mani. Ciò che viene interiorizzato, dunque, è il contatto con un oggetto che supporta e sostiene, oggetto cui il piccolo si stringe soddisfacendo la pulsione di aggrappamento e di attaccamento, più che la pulsione libidica. La soddisfazione libidica entra in gioco nel momento in cui questo contatto incorpora anche la poppata e il contatto oculare fra madre e figlio. La pelle comune tra il piccolo e l’oggetto-sostegno può avere, secondo Grotstein, due varianti: il dorso del bimbo contro il ventre della madre, e ventre del bimbo contro il dorso della madre. Nel primo caso, la madre-supporto fornisce protezione verso le parti che il piccolo non può controllare direttamente; nel secondo caso, la protezione è fornita alla parte più vulnerabile e preziosa, il ventre, da eccessi di eccitazione (funzione para-eccitatoria).

La pelle, in quanto superficie che ricopre l’intero corpo e nella quale sono contenuti gli organi, è la base per la funzione di contenitore dell’Io-pelle. L’handling della madre risveglia la sensazione-immagine della pelle come sacco mediante le cure corporee e le risposte che vengono offerte ai bisogni del bambino. Le emozioni e le sensazioni del bambino trovano una risposta nella relazione tra il suo corpo e quello della madre. Questa, con i gesti, la voce e le manipolazioni restituisce i vissuti al piccolo, sia in modo elaborato (mediante la rêverie), sia in modo che egli li viva come contenuti propri. L’Io-pelle, così, può essere il contenitore di contenuti provenienti dalle risposte corporee che la madre dà ai suoi bisogni corporei, rendendoli pensabili. I contenuti, così come le spinte pulsionali interne, forniscono un nucleo che deve trovare una limitazione, una superficie continua: l’Io-pelle che avvolge tutto l’apparato psichico. L’Io pelle si svilupperà, poi, in corpo differenziato sul quale la pulsione potrà essere convogliata per seguire le sue tappe di sviluppo.

Una terza funzione dell’Io-pelle è quella para-eccitatoria. Questa funzione psichica è svolta primariamente dalla madre e si struttura come funzione autonoma dell’Io solo quando questo trova una pelle sufficientemente saldo su cui appoggiarsi. La funzione psicologica è mutuata dalla funzione biologica dell’epidermide come protezione dalle diverse stimolazioni fisiche che incidono sull’organismo.

La pelle è il tramite per l’accesso di varie sostanze esterne e per il rifiuto di altre, secondo modalità estremamente individualizzate. In questo modo, anch’essa risulta diversa e propria di un unico organismo. L’Io-pelle traspone sul piano psichico questa caratteristica di estrema unicità, individualizzando il Sé.

La pelle è la superficie in cui si trovano disseminati tutti gli altri organi di senso. La funzione di sfondo sul quale si stagliano e si differenziano, pur restando uniti, i vari sensi, viene trasposta sul piano psichico dall’Io-pelle. Questo è il luogo in cui vengono collegate le varie sensazioni vengono tenute unite, collegate fra loro e riferite ad un unico soggetto, producendo al contempo una matrice per tutti i tipi di comunicazione, le quali presuppongono uno sfondo comunicativo tattile.

Inoltre, la pelle è oggetto dell’investimento libidico della madre, le cui cure implicano il contatto col corpo del piccolo. Queste cure piacevoli rendono la pelle lo sfondo dei futuri piaceri sessuali, localizzati in zone in cui la pelle è assottigliata, presenta orifizi o è erettile. Sul piano psicologico, la funzione di sfondo eccitatorio della pelle si traduce nella funzione dell’Io-pelle di fornire un’immagine di una superficie per il sostegno dell’eccitazione sessuale. Questa superficie si dispone come lo sfondo sul quale potranno essere differenziate le zone erogene.

Una funzione biologica della pelle, in quanto “contenitore” dei recettori di tutti i sensi, è quella di raccogliere le informazioni che provengono dal mondo esterno, integrando le varie stimolazioni in percetti unitari. Sul piano psicologico, l’Io-pelle traduce questa funzione di superficie recettiva in funzione di iscrizione di tracce sensoriali. Questa funzione è sostenuta dalla modalità di accudimento materno dell’object presenting: attraverso le modificazioni della pelle, intesa come contenitore dei sensi, la madre propone al piccolo le stimolazioni adeguate ai suoi bisogni, in modo che egli possa dapprima creare e poi intendere l’esistenza della realtà esterna.

Bibliografia

  • Anzieu, D., (1985), L’Io-pelle, tr. it., (1987), Roma, Borla.
  • Concato, G., (2006), Manuale di psicologia dinamica, Firenze, AlefBet.
  • Holmes, J., (1993), La teoria dell’attaccamento. John Bowlby e la sua scuola, tr. it., Milano, Raffaello Cortina Editore.
  • Winnicott, D. W., (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, tr. it., (1970), Roma, Armando.
  • Winnicott, D. W., (1971), Gioco e realtà, tr. it., (1974), Roma, Armando.
  • Winnicott, D. W., (1958), Dalla pediatria alla psicoanalisi, tr. it., (1978), Firenze, Martinelli.

La teoria del pensiero di Bion

Proverò a dare una breve, e non esaustiva, rassegna della teoria del pensiero di Bion, cercando di vedere il significato di elementi alfa, elementi beta, funzione alfa.

Fattori e funzioni della personalità

Nel suo libro del 1962, Apprendere dall’esperienza, Bion comincia a spiegare la sua visione sulla formazione dei pensieri. La personalità dell’individuo viene concepita come un insieme di funzioni, dove «“funzione” indica l’attività mentale propria di una certa quantità di fattori che operano in concordanza» (Bion, 1962). Il fattore, invece, viene inteso come «l’attività mentale che, operando assieme ad altre, costituisce una funzione» (Bion, 1962). Attraverso l’indagine delle funzioni della personalità è possibile ricavare i fattori che la rendono possibile. Tra le funzioni che costituiscono la personalità, Bion considera fondamentale, per la genesi dei pensieri, quella che lui chiama funzione alfa.

Per rendere noti i fattori che costituiscono la funzione alfa, Bion ricorre alle indagini che Freud elaborò ne Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, del 1911, sulle modificazioni dell’apparato psichico e delle sue funzioni, in relazione a «L’aumentata importanza della realtà esterna» (Freud, 1911). Freud era partito dalla caratteristica del nevrotico di allontanarsi mentalmente dalla realtà, dalla sua «perdita della function du réel» (Freud, 1911), per cercare le cause di quella che gli appariva (come la nevrosi stessa) un comportamento “normale” dell’apparato psichico. La psicoanalisi gli aveva mostrato che, al di sotto delle modalità di pensiero cosciente, si celavano dei «processi più antichi, primari, […] residui di una fase di sviluppo nella quale essi costituivano l’unica specie di processi psichici» (Freud, 1911). Da questa modalità di pensiero-azione, denominata processo primario che agisce in base al principio di piacere-dispiacere, dove il “pensiero” mira ad ottenere piacere ed a rifuggire il dispiacere, e l’”azione” si risolve nell’allucinare la realizzazione del desiderio, l’apparato psichico ha dovuto sganciarsi a causa della sua inefficienza, e ha «dovuto risolversi a rappresentare a sé stesso, anziché le condizioni proprie, quelle reali del mondo esterno» (Freud, 1911) affinché quest’ultimo potesse essere modificato per l’appagamento dei desideri.

L’apparato psichico, quindi, ha dovuto, per questo scopo di vitale importanza, modificare sé stesso; e sono queste modificazioni che Bion riprende come fattori della funzione alfa. Questi sono l’attenzione e il sistema di annotazione. Bion li riprende con il valore semantico che Freud aveva dato loro: la prima come «una funzione particolare per esplorare periodicamente la realtà esterna, così che i dati di questa siano già noti quando si produca un incontenibile bisogno interiore» (Freud, 1911); il secondo «il cui compito è quello di depositare i dati di questa periodica attività di coscienza [cioè, l’attività di esplorazione della realtà esterna ad opera dell’attenzione]: una parte di quella che chiamiamo memoria» (Freud, 1911).

Bion dice che l’attenzione e l’annotazione, insieme alla scissione, all’identificazione proiettiva, all’oscillazione dalla posizione schizo-paranoide alla posizione depressiva e ad alcune considerazioni sulla formazione dei simboli e sullo sviluppo del linguaggio, verranno considerati «unicamente in qualità di fattori modificati mediante reciproca combinazione in una funzione» (Bion, 1962). Tutte questi processi e teorie, cioè, sono dei fattori che contribuiscono alla formazione della funzione alfa, un’integrazione di attività mentali fondamentale, in quanto presiede alla formazione dei pensieri.

Nell’utilizzare i passi in cui Freud ipotizza la formazione delle due neo-funzioni dell’apparato psichico deputate «a cogliere, oltre alle qualità del piacere e del dispiacere […], anche le qualità sensoriali» (Freud, 1911), Bion fa un’annotazione che si rivelerà fondamentale per la sua concezione della capacità (o possibilità) di apprendere dall’esperienza. Bion considera «il comprendere [funzione della coscienza] le impressioni sensoriali e il comprendere le qualità piacere e dolore» (Bion, 1962), come due parti dello stesso processo di comprensione, dove quest’ultima funzione è considerata «Non nel senso dell’intelligibilità, ma nel senso di estensione» (Bion, 1963). In questo contesto l’esperienza si configura come un’integrazione, nella comprensione cosciente, degli oggetti coi quali ci si rapporta, siano essi del “mondo esterno” o di quello “interno”, e delle qualità piacere-dispiacere percepite in relazione ad esso. In altre parole, per ottenere un apprendimento, si deve “lavorare” sulla totalità dei fattori che fanno sì che si abbia un’esperienza intesa come relazione tra un soggetto e un oggetto tra loro inseparabili. La coscienza, intesa nel senso freudiano di «organo di senso per la percezione di qualità psichiche» (Freud, 1899), non fa distinzione tra l’esperienza emotiva che si verifica nello stato di veglia, in quello di sonno o nell’esperienza del proprio mondo interno; «Perché possano essere utilizzati dai pensieri del sogno, le percezioni di un’esperienza emotiva debbono essere preventivamente elaborate dalla funzione alfa» (Bion, 1962).

Elementi alfa, elementi beta e funzione alfa

Da questo passo si comprende come, per Bion, la possibilità di avere pensieri dipenda dalla capacità di relazionarsi “positivamente”, cioè mediante quella funzione mentale che egli chiama funzionealfa, con le esperienze emotive che si producono in ogni situazione. Infatti, «La funzione alfa esegue le sue operazioni su tutte le impressioni sensoriali, quali che siano, e su tutte le emozioni, di qualsiasi genere, che vengono alla coscienza» (Bion, 1962), e fa sì che vengano prodotti quelli che Bion chiama elementi alfa, i quali «vengono immagazzinati e rispondono ai requisiti richiesti dai pensieri del sogno» (Bion, 1962). Questi elementi alfa sono concepiti, da Bion, come i “fenomeni”, in senso kantiano, e si contrappongono agli elementi beta, i quali, ancora kantianamente, sono sentiti dal soggetto come “cose in sé”. Questi ultimi sono il materiale grezzo, «le impressioni sensoriali coscienti e le emozioni provate» (Bion, 1962), dalle quali si potrebbero produrre elementi per i pensieri.

Gli elementi alfa possiedono, dunque, quelle caratteristiche che rendono possibile l’attività di pensiero, i ricordi e i sogni. Dice Bion (1962): «Difatti la funzione alfa trasforma le impressioni sensoriali in elementi alfa i quali hanno somiglianza – se addirittura non sono la stessa cosa – con le immagini visive che ci sono familiari nei sogni – quegli elementi cioè che svelano il loro contenuto latente quando l’analista li abbia interpretati». Gli elementi beta, non possedendo quelle caratteristiche, non sono adatti per le operazioni di pensiero, pur essendolo, comunque, per altre. Essi si configurano come «fatti indigeriti» (Bion, 1962), non come ricordi, e «sono disponibili per le operazioni dell’identificazione proiettiva» (Bion, 1962). Gli elementi beta sono destinati all’evacuazione, e il loro utilizzo è tipico di un «pensiero fondato sul manipolare ciò che viene percepito essere una cosa in sé: tale manipolazione viene omologata all’uso delle parole e delle idee» (Bion, 1962). Questo significa che, quelle impressioni sensoriali delle esperienze emotive, avvertite con le caratteristiche di oggetti sensibili, invece di diventare materiali per un pensare orientato verso la modificazione della realtà, e quindi simbolizzabili e rappresentabili con le parole di un linguaggio, restano “cose in sé”, che significano quello che sono, che si sovrappongono ai fatti della realtà esterna. L’individuo che utilizza un tipo di pensiero come questo, non distingue ciò che prova da ciò che è accaduto al suo esterno, ed è portato ad agire, nel mondo esterno, allo stesso modo in cui, un individuo con una funzione alfa efficiente, agisce nell’inconscio. Il risultato è la riduzione di una tensione interna, ma non inconscia, dato che l’intera mente è costituita da elementi beta, vale a dire, da una realtà che è così come appare.

Nuova concezione del sogno

La funzione alfa, come detto, opera sulle impressioni sensoriali delle esperienze emotive, sia della veglia che del sonno, formando gli elementi alfa. L’avere questi elementi elaborati (metabolizzati) conduce alla possibilità di prendere o meno coscienza di quelle esperienze. Bion utilizza le virgolette per distinguere e trovare una relazione tra il sognare, come processo psichico che si verifica nello stato di sonno, e il “sogno”, inteso da lui come una operazione più generale dell’attività psichica, comprendente anche il sogno con la comune accezione.

Quest’ultimo tipo di sogno, infatti, è il racconto, la descrizione, in stato di veglia (dove si deve leggere anche cosciente), di quella esperienza emotiva, sognata o sentita da svegli. Nell’ottica di Bion, il “sogno” (quello che egli vuole distinguere con l’uso delle virgolette) è un’operazione, resa possibile dalla funzione alfa, che ha come risultato la discriminazione tra il conscio e l’inconscio, separazione che deve essere mantenuta per avere un pensiero ordinato. Il sogno, comunemente inteso, è il resoconto (più o meno costruito) di ciò che è avvenuto durante lo stato di sonno. Per Bion, come si è già detto, la funzione alfa esplica la sua azione su ogni impressione sensoriale delle esperienze emotive, indipendentemente dal loro verificarsi nel sonno o nella veglia. L’ambito di applicazione della parola “sogno” (tra virgolette) si estende così a tutte le possibilità di pensare ciò che sta avvenendo, vale a dire, tutte le esperienze emotive che vengono metabolizzate e trasformate in elementi alfa.

Il “sogno” è, dunque, una barriera che mantiene separati gli avvenimenti dei quali è stata presa coscienza da quelli che rimangono fuori dalla comprensione di quest’ultima; esso, cioè, separa, anche grazie alle due funzioni scoperte da Freud della resistenza e della censura (che qui hanno chiaramente un’altra origine), ciò che è conscio da ciò che non lo è. A questo proposito, Bion riporta un esempio di una persona che, parlando con un amico, converte in elementi alfa le impressioni sensoriali di questa esperienza emotiva, e così «Grazie al “sogno” può continuare ad essere ininterrottamente sveglio; sveglio, cioè, relativamente al fatto di star parlando con il suo amico, ma addormentato relativamente ad elementi che, se potessero penetrare le barriera dei suoi “sogni”, metterebbero il suo intelletto sotto il dominio di idee ed emozioni solitamente inconsce» (Bion, 1962).

La barriera di contatto

Il “sogno”, che impedisce il dominio della consapevolezza sulle fantasie inconsce e viceversa, è esemplificata da una particolare modalità di relazionarsi degli elementi alfa, avente la funzione di preservare «la personalità da uno stato virtualmente psicotico» (Bion, 1962), una barriera tra la consapevolezza e i fenomeni mentali inconsci.Gli elementi alfa che si producono grazie all’azione che la funzione alfa esercita sulle impressioni sensoriali delle esperienze emotive, proliferano durante le esperienze, e «si condensano (cohere) formando [quella che Bion chiama] la barriera di contatto» (Bion, 1962). La barriera di contatto, essendo formata dalla condensazione e dalla proliferazione di elementi alfa, è in continua formazione, e «segna il punto di contatto e di separazione fra gli elementi consci ed inconsci e genera la distinzione fra loro» (Bion, 1962). Il conscio e l’inconscio sono anch’essi formati da elementi alfa, ma nel secondo si vanno a depositare le esperienze metabolizzate, così che il pensiero cosciente sia libero dalle emozioni dell’esperienza e possa dedicarsi a ciò che sta accadendo. Con la trasformazione degli elementi beta in elementi alfa e con il loro deposito nell’inconscio, i «pensieri destinati un tempo a diventare coscienti divengono inconsci» (Bion, 1962), col risultato che l’esperienza può essere pensata senza esserne coscienti. In questo modo «i pensieri del sogno e il pensiero inconscio di veglia» (Bion, 1962). hanno del materiale da utilizzare al fine di produrre sogni e di lasciare libero il pensiero da emozioni che ne comprometterebbero l’attività nella realtà; quindi, «La funzione alfa è necessaria per ragionare e pensare consapevolmente e per devolvere il pensare all’inconscio quando, nell’apprendere un’attitudine, è necessario liberare la coscienza dal peso del pensiero» (Bion, 1962). Sempre usando le parole di Bion (1962): «Ecco la formulazione più generale della mia teoria: perché si possa apprendere dall’esperienza, la funzione-alfa deve operare sulla consapevolezza di un’esperienza emotiva; dalle impressioni di tale esperienza scaturiscono elementi-alfa; tali elementi vengono resi immagazzinabili affinché i pensieri del sogno e il pensiero inconscio dei veglia li possano utilizzare».

Genesi della funzione alfa

Naturalmente Bion doveva anche concentrarsi sulle modalità di produzione, di genesi, della funzione che egli aveva ipotizzato per meglio comprendere i disturbi del pensiero. A questo proposito Bion riprende e sviluppa il “modello alimentare” che già Melanie Klein aveva applicato al pensiero e, come lei, pone come punto di partenza dello sviluppo dell’apparato per pensare i pensieri nella relazione duale seno/madre–bambino. Bion sostiene che, prima ancora di avere l’apparato che permette di pensare i pensieri, l’individuo deve essere capace di svilupparli, il che significa, utilizzando i suoi termini, che gli elementi beta devono potersi evolvere in elementi alfa. Per far ciò è necessaria la funzione alfa. La domanda che si pone è naturalmente come il bambino giunga ad averla.

Nell’infante, originariamente, sono presenti solo elementi beta («La conclusione è che gli elementi beta sono cronologicamente anteriori agli elementi alfa». Bion, 1962) le sue esperienze emotive sono «seno buono e seno cattivo» e «ciò che viene in primo luogo segnalato agli organi di senso sono la componente fisica, il latte, il malessere dovuto alla sazietà, o il suo opposto» (Bion, 1962). Egli non è capace di gestire e metabolizzare queste sensazioni e queste emozioni, dato lo stato primitivo della sua attività di pensiero, un pensiero che serve «a liberare la psiche dall’accumularsi degli stimoli, secondo quel meccanismo che Melanie klein ha chiamato identificazione primitiva». Questo meccanismo primitivo e non adattivo, che tratta la realtà in modo onnipotente, è alla base dello sviluppo del pensiero, nonché la chiave per comprendere come si formano le sue anomalie. Il bambino, mediante questo meccanismo, intende «suscitare nella madre la presenza di quelle sensazioni che egli non intende avere o che comunque desidera che la madre abbia» (Bion, 1962). È evidente che la madre gioca un ruolo cruciale nello sviluppo della capacità di pensare del bambino; ma, altrettanto importante è la costituzionale capacità di tollerare la frustrazione del bambino stesso. Tollerare la frustrazione significa non dover ricorrere alla scissione e alla proiezione di parti di sé avvertite come cattive nella madre e, di conseguenza, entrare in rapporto più realistico con la realtà.

Sulle orme di Klein, Bion ripercorre il cammino che, dalla relazione duale originaria tra madre e bambino, conduce alla formazione, in quest’ultimo, di un pensiero dominato dal principio di realtà, dalla capacità di adattarsi all’ambiente esterno e dalla possibilità di relazionarsi con la propria realtà psichica, rintracciando in essa la verità su sé stesso. In questa relazione il seno dona al bambino «latte, senso di sicurezza, calore, benessere, amore» (Bion, 1962). Tra latte e amore, a prima vista, la differenza sta nella concretezza del primo, e nella immaterialità del secondo. Ma, «dal punto di vista del benessere psichico del bambino, [l’amore, può essere concepito] come qualcosa di simile al latte» (Bion, 1962). Il canale digerente è l’apparato idoneo alla ricezione del latte; apparato che sembra mancare, invece, alla ricezione dell’amore. Ma, come fa notare Bion, esiste una stretta correlazione, nel rapporto madre-bambino, tra il latte e l’emotività; infatti, «quando succede che il latte viene a mancare, si chiamano in causa disturbi emotivi [e], Altrettanto per il bambino: quando soffre di disturbi digestivi, si imputa all’ambiente emotivo l’origine di essi» (Bion, 1962). Ecco che il seno (inteso per come lo intende Melanie Klein) è l’oggetto che dispensa, non solo il latte, ma anche l’amore. Si tratta, quindi, di un «seno psicosomatico […] [cioè dell’] oggetto di cui il bambino ha bisogno per procacciarsi il latte e gli oggetti interni buoni», il quale trova corrispondenza in un «canale alimentare psicosomatico» (Bion, 1962) del bambino.

La rêverie

La madre, dunque, esprime il suo amore, «oltre che con i canali fisici di comunicazione, [anche] per mezzo della rêverie» (Bion, 1962). La rêverie è un fattore della funzione alfa della madre, ed è definita da Bion come «lo stato mentale aperto alla ricezione di tutti gli “oggetti” provenienti dall’oggetto amato, quello stato cioè capace di recepire le identificazioni proiettive del bambino, indipendentemente dal fatto se costui le avverta come buone o come cattive» (Bion, 1962). Essa è un’attività mentale che, combinandosi con altre, forma quella funzione capace di trasformare le impressioni sensoriali delle esperienze emotive in oggetti pensabili (o passibili di evolvere in pensieri), anche se in questo caso si parla delle sensazioni del bambino. In questa relazione di rêverieil concetto di identificazione proiettiva, per Bion, varca i limiti della fantasia intra-psichica del soggetto alla quale Klein lo aveva legato, e va a coprire un ruolo più ampio: la comunicazione. Il meccanismo che Melanie Klein aveva enucleato si configura, in Bion, come una modalità primitiva di comunicazione delle proprie esperienze emotive «che opera piuttosto con gli oggetti esterni che con gli oggetti interni» e che «induce realmente nell’altro un coinvolgimento emotivo» (Bertolone, S.; Correale, A.; De Spuches, G.; Fadda, P. (1994).

In quanto modalità comunicativa delle emozioni, e in quanto meccanismo atto a manipolare la realtà esterna, l’identificazione proiettiva, è già concepibile come «una varietà primitiva di quanto più tardi viene definito capacità di pensare» (Bion, 1962). Essa tende sì, a sbarazzare l’apparato psichico dall’accumulo di stimoli, ma soprattutto tenta di instaurare un “canale emotivo” con l’alterità, creando un «campo bi-personale o pluri-personale» (Bertolone, S.; Correale, A.; De Spuches, G.; Fadda, P. (1994) che garantisce il passaggio delle emozioni verso una soggettività capace di “metabolizzarle”. La funzione alfa della madre deve avere la capacità di accogliere le comunicazioni emotive del bambino (che fanno sempre riferimento alle sensazioni di persecuzione da parte di oggetti cattivi, come il seno cattivo), di modificarle e di restituirle sottoforma di «oggetti interni stabili o funzioni mentali acquisite» (Il seno cattivo è l’esperienza dell’assenza di un seno buono, vissuta come esperienza di presenza di un seno dalle qualità opposte. Il bisogno di un seno buono, che però è assente, si trasforma nel bisogno di eliminare-espellere un seno cattivo).

Nel periodo dell’allattamento, quindi, il bambino è preda di forti emozioni per lui incomprensibili; gli elementi beta, che costituiscono queste emozioni, possono solamente essere evacuati mediante l’identificazione proiettiva, comunicati alla madre, disposta a riceverli nella posizione di rêverie, la quale li “metabolizza”, restituendoli al bambino insieme alla capacità di formare i pensieri: la funzione alfa. La comunicazione resa possibile dalla identificazione proiettiva fa si che la madre possa «riconoscere lo stato d’animo del proprio bambino prima che egli stesso ne sia conscio» (Bion, 1962), e rende possibile una risposta adeguata a quelle emozioni (ad esempio, una rassicurazione) che viene comunicata al bambino. Il latte e l’amore sono per Bion, rispettivamente, la condizione di uno sviluppo sano dell’organismo, e la condizione della possibilità di evoluzione di un apparato sano per pensare i pensieri: infatti, mentre mediante il latte il bambino può sostentarsi e crescere fisicamente, tramite l’amore, la rêverie della madre, egli può sostituire ai contenuti emotivi incomprensibili, persecutori e cattivi che lo pervadono dei contenuti integri, buoni e pensabili, introiettando anche la funzione alfa, la quale gli permetterà di sganciare il suo apparato psichico da quello della madre nella produzione e nell’utilizzo dei pensieri.

Anomalie nella funzione alfa

La dinamica tra elementi alfa e elementi beta nella relazione di rêverie con la madre, non si esaurisce, naturalmente, nell’esito positivo della assunzione della funzione alfa, nella costituzione dellabarriera di contatto che separa conscio e inconscio e nella possibilità di pensare i pensieri. La teoria delle funzioni di Bion ha il compito di rendere ragione di tutte le situazioni analitiche, senza fare ricorso a teorie ad hoc ogni qualvolta si presentino delle realizzazioni sconosciute. I disturbi del pensiero si opponevano alla teoria classica di Freud, e non potevano essere oggetto di indagine mediante quella. Ecco che, parallelamente allo sviluppo “positivo” della funzione alfa, si presenta anche il suo contrario, una mancanza o una forma di impiego di essa volta all’esclusione del principio di realtà, e determinato dal predominio dell’invidia (in senso kleiniano)e dell’incapacità a tollerare la frustrazione nella relazione originaria con la madre. Se «l’intolleranza della frustrazione (o l’eccesso di invidia o di odio) superano un certo limite, entrano in opera meccanismi onnipotenti, specialmente quello dell’identificazione proiettiva» (Bion, 1962), che può condurre all’evacuazione, insieme agli elementi beta indesiderati, anche della stessa funzione alfa. A causa di questi meccanismi la funzione alfa può subire, o un arresto, che la conduce ad essere difettosa, o una «inversione di senso» (Bion, 1962) nel suo operare. Quando la funzione alfa è difettosa, al posto della barriera di contatto formata da elementi alfa, si costituisce lo schermo beta, un agglomerato di elementi beta, che presenta caratteristiche di coerenza, «dotato di una speciale proprietà, quella di provocare le risposte desiderate ovverosia di indurre nell’analista una reazione fortemente caricata di controtransfert» (Bion, 1962). Con l’inversione della funzione alfa, tutti i suoi prodotti subiscono un processo teso a “spogliare” gli elementi alfa di «quelle caratteristiche che li diversificavano dagli elementi beta» (Bion, 1962), per poi essere proiettati. Ne risultano degli oggetti differenti dagli elementi beta, ma che a loro si approssimano più di qualsiasi altro elemento: gli oggetti bizzarri. A differenza delle impressioni grezze che il soggetto avverte durante una esperienza emotiva, gli oggetti bizzarri presentano delle «tracce di Io e di Super Io» al loro interno. Il soggetto considera gli oggetti bizzarri «come parti di sé e nello stesso tempo oggetti del mondo esterno che mantengono una vita propria ed incontrollata» (D’Aspruzzo, A. (1994)) «Il paziente avverte che ogni particella consiste di due parti: un nucleo costituito dall’oggetto reale ed un alone attorno ad esso, rappresentato dal frammento della propria personalità» (Bion, 1957).

Riferimenti bibliografici

Bion, W. R. (1957) Criteri differenziali tra personalità psicotica e non psicotica. In Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Roma, Borla

Bion, W. R. (1962) Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando 1972

Bion, W. R. (1963) Gli elementi della psicoanalisi. Roma, Armando 1973

Freud, S. (1899) L’interpretazione dei sogni. OSF, Vol. 3

Freud, S. (1911) Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico. OSF, Vol. 6

Neri, C.; Correale, A. ; Fadda, P. (a cura di) (1994) Letture bioniane. Roma, Borla

Assunti di base e Social Network

Forse è possibile utilizzare la teoria degli assunti di base di Bion per leggere alcuni fenomeni che si verificano nei social network.

Il tema della gruppalità appare come molto rilevante in un clima culturale in cui sono disponibili sempre più modalità di incontro e confronto. Sicuramente, le nuove tecnologie hanno creato dei nuovi modi di “stare insieme”; ma, forse è possibile leggere alcuni comportamenti sui social network impiegando teorie sviluppate nell’ambito della gruppalità “tradizionale”, ossia quella in cui gli individui sono fisicamente presenti l’uno a l’altro.

Dopo una non esaustiva rassegna sulle teorie di Freud e Bion, verranno fatte alcune brevi considerazioni sul possibile impiego della teoria dei gruppi di Bion sui social network.

L’individuo nella massa: Freud

In “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” (Freud, 1921), Freud esplora la psicoanalisi nel contesto delle dinamiche dei grandi gruppi: le folle. Freud osserva le folle utilizzando la metapsicologia strutturale sviluppata per l’individuo. Si occupa, quindi, del comportamento dell’individuo in quanto “membro di…”, comportamento che sembra subire una modificazione radicale rispetto all’ordinario scenario individuale. Per caratterizzare le folle, Freud parte dalle affermazioni di Le Bon (1895), secondo il quale esse possono essere delle collettività permanenti (come lo Stato o la Chiesa) o transitorie, organizzate o non organizzate, con un capo o senza. Freud mette in discussione la possibilità dell’assenza di un capo; la sua presenza, a suo avviso, è la caratteristica fondante della folla. Le Bon viene anche ripreso per la descrizione della folla come impulsiva, estremamente accessibile alle immagini e pochissimo alle istanze critiche, incline al fascino della parola, capace di azioni cruente e nobili, come se la contraddizione non esistesse, facile preda di sentimenti impetuosi da appagare immediatamente. Il pensiero e l’affettività delle folle vengono descritti come assimilabili al comportamento dei popoli primitivi o degli infanti. Un’altra caratteristica osservabile nelle folle è il “contagio emotivo”, ossia «il fatto che ogni sentimento ed ogni atto tende a propagarsi ed a venir riprodotto da tutti i componenti della folla» (Musatti, C. L., 1949). Freud considera questo aspetto del “contagio emotivo” riprendendo McDougall, il quale imputa il fenomeno alla aumentata suggestionabilità dei membri. Freud parte dalla suggestionabilità per rintracciare un’analogia tra il rapporto del gregario col capo e quello dell’ipnotizzato e dell’ipnotizzatore. Freud parla quindi di un rapporto molto particolare, una relazione in cui un soggetto si abbandona ad un altro ritenuto detentore di un “potere misterioso”. Freud, come Ferenczi (1909), fonda questa relazione sul transfert, ossia sull’investimento libidico dell’ipnotizzatore inteso come ripetizione della relazione coi genitori. Come i genitori, l’ipnotizzatore viene idealizzato, l’ipnotizzato assume l’operatore come una sua parte ideale, spostando su di esse una grande quota di libido. In questo modo, l’ipnotizzato identifica l’operatore con il proprio Ideale dell’Io, impoverendosi. Questa identificazione è la riproduzione dell’identificazione originaria che il bambino mette in atto nei confronti del genitore e riguarda quindi il passato ontogenetico della persona. Nel 1921 Freud descrive così questo meccanismo: «L’identificazione è nota alla psicoanalisi come la prima manifestazione di un legame emotivo con un’altra persona. Essa svolge una sua funzione nella preistoria del complesso edipico. Il maschietto manifesta un interesse particolare per il proprio padre, vorrebbe divenire ed essere come lui, sostituirlo in tutto e per tutto. Diciamolo tranquillamente: egli assume il padre come proprio ideale». Su queste considerazioni Freud concepisce il legame tra i membri di una folla e il capo: nella folla si realizza uno spostamento di libido dal membro al capo, il quale viene identificato col proprio Ideale dell’Io e quindi investito di un potere che ricorda quello che il bambino vede in suo padre o che l’ipnotizzato vede nell’ipnotizzatore.

Il legame dei membri col capo è osservato nelle due folle artificiali, la Chiesa e l’Esercito. In esse Freud vede che i fedeli o i soldati hanno bisogno di essere amati dal capo (Dio o il Capitano) e che in quelle istituzioni, la partecipazione si fonda proprio sull’assunto che il partecipante è amato come tutti gli altri. L’illusione di essere amati, il capo onnipotente e il comportamento simile al “processo primario” della massa vengono visti alla luce del passato filogenetico dell’uomo. Freud si riallaccia al mito dell’”Orda primitiva”. In questa, un unico maschio domina una collettività disponendo delle risorse sessuali in modo esclusivo. I membri della collettività sono paritari per il fatto di avere spostato la loro libido sul capo; sono quindi parzialmente o totalmente privi della personalità individuale, della parte critica che potrebbe ostacolare una psicologia primitiva e istintiva. Il capo dell’orda è quindi un tiranno che deve essere temuto, oppure ucciso. Allo stesso modo, il capo della folla è una persona che non ha investito nell’Ideale dell’Io e gode ancora di una buona quota di appagamento narcisistico, che prospetta ai gregari «l’impressione di una maggiore forza e di una maggiore libertà libidica; in tal caso il bisogno di un capo forte e supremo lo favorisce, conferendogli un potere cui forse non avrebbe potuto aspirare» (Freud, 1921). Queste caratteristiche sono proprie della massa che quindi «ci appare come una reviviscenza dell’orda primordiale»(Freud, 1921). Il legame fra i gregari è spiegato da Freud con un’altra identificazione. Il singolo aspira, come il bambino verso la madre, ad un amore esclusivo. Questo amore verrebbe a mancare in caso di aggressività nei confronti, ad esempio, del fratello minore, di un compagno di classe o, in età adulta, di un membro del gruppo. I gregari, allora, stabiliscono un’identificazione dell’Io, vivendo così la convinzione di essere amati tutti allo stesso modo.

La nuova concezione del gruppo: Bion

Le prime riflessioni di Bion sui gruppi si trovano nella raccolta di scritti “Esperienze nei gruppi” del 1961. Il testo è composto da una raccolta di tre articoli pubblicati precedentemente su alcune riviste tra il 1943 e il 1962. Dopo questa data, Bion tornerà ad occuparsi dei gruppi nel 1970, in “Attenzione e Interpretazione”, alla luce delle sue nuove teorizzazioni.

Bion inizia la sua riflessione sui gruppi a partire da esperienze pratiche. Infatti, si confronta con un tipo gruppo “nuovo”, molto distante dalla massa di cui si era occupato Freud. Dopo l’esperienza nel campo di riabilitazione dei militari assieme a Rickman, Bion viene chiamato a condurre dei gruppi terapeutici alla Tavistock. Tenendo sullo sfondo le teorizzazioni psicoanalitiche e avvalendosi dei risultati dell’esperienza da psichiatra militare, Bion si accosta al gruppo cercando di vederne le dinamiche interne, concependolo come un “tutto”, come un organismo con modalità che trascendono il contributo individuale dei membri che lo formano.

Il nuovo atteggiamento che Bion utilizza nell’approcciarsi ai gruppi lo fa distanziare da Freud. Per Bion, Freud aveva evidenziato i legami libidici che tengono unita la massa al capo, ossia degli investimenti libidici verso un oggetto interno, l’Ideale dell’Io, che veniva identificato con il cx . Nella massa, poi, i membri si legavano fra loro per l’identificazione del proprio Io, divenendo così tutti amabili allo stesso modo dal capo. Bion considera questa visione derivante dall’assetto della coppia psicoanalitica, che vede i due membri legarsi mediante investimenti libidici. Nel gruppo che osserva Bion, i meccanismi attivi sono meno evoluti dell’identificazione introiettiva vista da Freud; infatti, sulla scorta delle teorizzazioni kleiniane, Bion sostiene che il gruppo si costituisca e si mantenga secondo indentificazioni proiettive. In questo modo, il leader non è una persona con la quale il gruppo si identifica, ma è il contenitore delle emozioni del gruppo, il più adatto ad esprimere in quel momento ciò che il gruppo sente: esso «è scelto dal gruppo poiché possiede “qualità” che lo rendono particolarmente adatto ad esprimere le esigenze del gruppo basico» (Cotugno, A., Fadda, P., Santacecilia, L., Turco, L., Ungaro, L. (1994) Freud e Bion; in Neri, C., Correale, A., Fadda, P. (1994) “Letture bioniane”, Borla. Roma). Per Bion, sia il leader che i membri sono un prodotto del gruppo, poiché questo si costituisce come un organismo al quale gli individui partecipano inevitabilmente e inconsciamente con una parte della loro personalità: la personalità gruppale.

Gruppo di lavoro

Secondo Bion, i gruppi si trovano ad affrontare le stesse angosce che il singolo ha sperimentato nella primitiva relazione con il seno e impiega le stesse difese attive in quel periodo di sviluppo. Un gruppo, quindi, è formato da persone che si trovano nello stesso grado di regressione. La formazione dei gruppi non avviene al momento in cui si presenta un capo; le persone sono da sempre predisposte alla formazione di gruppi. Secondo Bion esiste una dimensione gruppale nell’individuo, che lui chiama “valenza”, ossia «la capacità del singolo di combinarsi istantaneamente e involontariamente con un altro per condividere un assunto di base e agire in base a esso» (Bion, 1961). La dimensione gruppale dell’individuo, secondo Bion è osservabile solamente in un contesto di gruppo, ma è sempre presente. Quando l’individuo si trova in gruppo produce e partecipa a uno “stato mentale” comune a tutti i membri. Quando il gruppo si trova con un obiettivo esplicito, come la cura psicologica, mette in atto un livello di cooperazione volto a raggiungere l’obiettivo. Questo stato mentale del gruppo è paragonato da Bion, per le sue caratteristiche, all’Io definito da Freud nel 1911 ed è chiamato “Gruppo di Lavoro”. È uno stato mentale del gruppo legato alla realtà, utilizza un tipo di pensiero scientifico (o tendente ad esso), è capace di riflettere sulle proprie emozioni e di pensarle, è capace di tollerare la frustrazione di non avere immediatamente tutte le risposte e soluzioni ed è disponibile ad apprendere dall’esperienza. Come L’io descritto da Freud, il gruppo di lavoro utilizza i parametri della realtà come lo spazio e il tempo e, per questo, può vedere uno sviluppo. Dato che «Ogni gruppo, per quanto casuale, si riunisce per “fare” qualcosa» (Bion, 1961), lo stato mentale di lavoro è sempre presente in un gruppo.

Gli assunti di base

Tuttavia, Bion osserva che nei gruppi riunitisi per svolgere un lavoro si determina anche una mentalità volta ad ostacolare il lavoro psicologico. Bion descrive la vita mentale dei gruppi terapeutici da lui condotti come «carica di emozioni che esercitano un’influenza potente, e spesso inosservata, sull’individuo […] a tutto danno delle sue facoltà critiche» (Bion, 1961). La situazione gruppale è fonte di emozioni forti e disorganizzanti che ostacolano lo stato di gruppo di lavoro. Bion trova tre configurazioni di stato mentale opposto al lavoro che chiama “assunti di base”.

Gli assunti di base rappresentano una tendenza universale dell’uomo, una risposta automatica alle situazioni gruppali. Quando si forma un gruppo e si determina un assunto di base la persona perde la propria individualità e cerca di rimanere all’interno del gruppo. Per far questo, aderisce inconsciamente alle emozioni e al comportamento del particolare assunto di base attivo in quel momento, cercando di perpetuarlo. Nel gruppo in assunto di base non c’è una tendenza verso la conoscenza e il cambiamento, anzi, esso si mette in moto proprio per evitare l’introspezione e la presa di coscienza della frammentarietà di base del gruppo stesso: «L’attività del gruppo di lavoro è ostacolata, deviata e talvolta favorita, da certe altre attività mentali che hanno l’attributo di forti tendenze emotive. Queste attività, a prima vista caotiche, acquistano una certa strutturazione se si ammette che esse derivano da alcuni assunti di base comuni a tutto il gruppo» (Bion, 1961). L’assunto di base è quindi uno stato mentale collettivo, inconsciamente e automaticamente prodotto dal gruppo, che cerca di opporsi alla crescita e al lavoro analitico. In esso il linguaggio non ha la funzione di pensare le emozioni e i vissuti, ma serve per veicolare e inoculare queste emozioni nell’altro, in modo da farlo rimanere aderente all’assunto. In assenza di capacità di pensare, il gruppo propone uno stereotipo di conoscenza, una pseudo-conoscenza, fondamentalmente dogmatica alla quale i membri devono aderire ciecamente per non essere espulsi dal gruppo. Gli assunti di base sono perciò una strutturazione della vita emotiva e fantasmatica del gruppo che si oppone alla conoscenza, vale a dire al dolore che comporta l’apprendere dall’esperienza. Bion identifica tre stati mentali del gruppo in assunto di base, ognuno dei quali si oppone al lavoro introspettivo e al cambiamento: Dipendenza, Attacco-Fuga e Accoppiamento.

a. Dipendenza

Nel gruppo in assunto di base di DIPENDENZA i membri vivono nell’idea che esista un oggetto esterno capace di rassicurare e di soddisfare i loro bisogni: «La persona prescelta solleva gli altri dal bisogno di essere responsabili di pensare ed elaborare le cose per conto loro» (Bion, 1961). Il conduttore del gruppo viene quindi investito di questo ruolo e i membri si rivolgono a lui «per ricevere nutrimento, materiale e spirituale, e protezione» (Bion, 1961) . Quando il terapeuta nega questa sua funzione, il gruppo sente che è stata fatta un’offesa alla divinità-terapeuta e ha reazioni di disappunto.

b. Attacco-Fuga

Nell’assunto di base di ATTACCO-FUGA «il gruppo si è riunito per combattere o per fuggire qualcosa» (Bion, 1961). La leadership di questo gruppo è affidata ad un membro capace di presentare al gruppo qualcosa da cui fuggire o da combattere. Questo membro, dice Bion, è di solito una persona con tratti paranoidi o l’individuo più disturbato. Il “nemico” è il lavoro psichico, l’insight, il “nuovo”, ossia ciò che emergerebbe se il gruppo entrasse in assetto di gruppo di lavoro.

c. Accoppiamento

Il terzo assunto di base che Bion identifica è quello di ACCOPPIAMENTO. Questo gruppo non ha un leader “attuale”, ma vive un clima sereno nella speranza che arrivi colui che può salvare tutti: il “messia”. È un gruppo che vive la propria temporalità nel futuro e che rifiuta, perciò, il tempo presente del lavoro e dell’indagine. Il “messia” (che può essere una persona, un’idea o un oggetto), tuttavia, non deve mai arrivare. Infatti, con lui arriverebbe l’”idea nuova”, ossia qualcosa che impone il cambiamento.

Il sistema protomentale

Secondo Bion durante un gruppo di lavoro è possibile la compresenza di un solo assunto di base. Per dare ragione del “destino” dei due assunti di base non presenti, Bion formula l’ipotesi del “sistema protomentale”. Questo sistema è una condizione di indifferenziazione tra lo psichico e il corporeo. Gli assunti di base inattivi in un dato momento, sono nello stato di indifferenziazione e, quindi, non ancora “psichici”. In quanto indifferenziati, possono tradursi sia in fenomeni psichici che somatici. Questa matrice sembra una prima elaborazione degli elementi beta che Bion svilupperà a partire dal 1962 con “Apprendere dall’esperienza”. La dimensione protomentale appare un’agitazione sensoriale prodotta dall’impatto dell’emotività che può essere o pensata o agita. Si può pensare che il gruppo riesca ad esprimere l’assunto di base quando le sue emozioni sono disponibili per essere tradotte sul piano psicologico: «Cominciando dai fenomeni protomentali, possiamo dire che il gruppo si sviluppa fino a che le emozioni diventano esprimibili in termini psicologici. È a questo punto che io dico che il gruppo si comporta “come se” stesse agendo secondo un assunto di base» (Bion, 1961).

Gli assunti di base, secondo Bion, si attivano nel momento in cui il gruppo è chiamato ad indagare le proprie tensioni e a pensare le proprie emozioni. Il lavoro di indagine è vissuto dal gruppo come estremamente angosciante a causa del significato che l’attività conoscitiva assume nella vita inconscia del gruppo. Bion assimila lo psicoanalista che “chiede”, alla Sfinge della tragedia di Edipo: egli sembra voler costringere il gruppo a rivivere le angosce primitive e le fantasie di esplorazione del corpo materno. I meccanismi difensivi attivi, quindi, non sono solo sul piano nevrotico (come aveva osservato Freud nel “gruppo di accoppiamento” che è la coppia analitica”), ma anche e soprattutto psicotico. Bion mette in relazione l’emergere e l’avvicendarsi degli assunti di base con l’avvicinarsi del gruppo alla rappresentazione di una scena primaria primitiva che farebbe nascere emozioni disorganizzanti. La curiosità, per il gruppo, è un istinto rischioso che scatena angosce profonde. Per difendersi da queste angosce, il gruppo inibisce la tendenza ad indagare formando un assunto di base o passando ad un altro. Gli assunti di base, quindi, emergono come difesa contro la rappresentabilità di una «scena primaria estremamente primitiva che si svolge a livello di oggetti parziali ed è associata a meccanismi di splitting e di identificazione proiettiva che Melanie Klein ha descritto come caratteristiche della posizione schizo-paranoide e depressiva» (Bion, 1961).

Gruppi di Lavoro Specializzati

Bion riprende le due masse artificiali che Freud aveva identificato nell’Esercito e nella Chiesa. Per Bion, questi due gruppi rappresentano dei “gruppi di lavoro specializzato”, ossia due gruppi che si formano per permettere al gruppo principale di lavoro di continuare le sue attività orientate alla realtà. I gruppi di lavoro specializzati si organizzano su un assunto di base (dipendenza per la Chiesa e attacco-fuga per l’Esercito) con il compito specifico di «neutralizzare [gli assunti di base specifici] e impedire così che questi siano di ostacolo alla funzione del gruppo di lavoro nel gruppo principale» (Bion, 1961). Il gruppo di lavoro specializzato contiene le emozioni dell’assunto di base e evita che queste si traducano in azione; infatti, la relazione con la realtà deve essere appannaggio solo del gruppo di lavoro, poiché solamente esso ha le funzioni per contattarla, comprenderla e produrre un adattamento. Oltre ai gruppi specializzati già identificati da Freud, Bion ne enuclea un terzo, relativo all’assunto di base di accoppiamento: l’Aristocrazia. Questo sottogruppo è particolare perché è connesso con la speranza nella nascita di un’idea nuova e, quindi, «di solito aiuta il gruppo a capire che la nuova idea consiste un qualcosa che è già familiare» (Bion, 1961).

Scisma e sottogruppi

Nel gruppo è possibile anche trovare una separazione in sottogruppi; Bion chiama questo fenomeno “scisma”. Quando il gruppo si trova di fronte ad una possibilità di sviluppo, ossia al confronto con una nuova idea che comporta una dolorosa elaborazione, il gruppo può scindersi in due controparti, fenomenologicamente differenti, ma entrambe volte a mantenere lo status quo. Un sottogruppo può aggrapparsi alla “tradizione”, alla “storia del gruppo” e alle idee fino a quel momento raggiunte. In questo modo, si ha un dogmatico ristagno su ciò che è noto. Un altro sottogruppo può, invece, manifestare una tendenza allo sviluppo dell’idea nuova, tendenza che viene perseguita in maniera estrema e radicale. La forte determinazione di questo sottogruppo produce un’angoscia talmente forte che non riesce a reclutare membri per portarla avanti. Entrambi i gruppi, quindi, si trovano fermi e lo sviluppo risulta bloccato.

Considerazioni: gli Assunti di base nei social network

Le riflessioni bioniane sugli assunti di base mi sembrano fondamentali nel contesto attuale e credo che possano gettare una luce di comprensione non solamente sui gruppi umani “tradizionali”, ossia sui gruppi di persone che si ritrovano fisicamente insieme in vista di un obiettivo, ma anche sui “nuovi gruppi”, ossia quelli virtuali. Il mondo dei social network ha dato modo di creare dei contesti di interazione senza che si debba necessariamente essere fisicamente presenti. Molto spesso capita di osservare gruppi virtuali che si comportano proprio nel modo che Bion descrive per gli assunti di base. Spesso vediamo come un gruppo polarizza la propria attenzione nella identificazione di un nemico da umiliare, con fantasie di esclusione o distruzione. In altri gruppi, invece, si osservano vissuti di attesa nei confronti di un presunto salvatore, sia esso politico, artistico, sociale, ecc… Il social netework sembra non essere quindi, solamente un luogo in cui l’individuo mette aspetti di sé in modo indipendente dal gruppo, ma appare come un luogo che stimola, amplifica e canalizza quella spinta al partecipare al gruppo che abbiamo insita in noi.

Su questa linea sembra di poter collocare la dimensione “visiva” dei social. I contenuti condivisi lasciano poco spazio alla parola. Quando lo spazio c’è, spesso si tratta di parole ad alto contenuto emotivo, che stimolano nell’utente una reazione che gli fa prendere una “parte”. Sembra che il meccanismo sia molto rapido e non consenta una riflessione critica approfondita da parte dell’utente. Anche le immagini proposte sembrano voler sortire quell’effetto: eventi catastrofici, paure, speranze, timori, ideali di sentimenti eterni, eroismi… In quei momenti, al di là della nostra reale partecipazione individuale, possiamo pensare di star partecipando ad un gruppo che vive quelle emozioni e che cerca di perpetuarle.

Al netto delle possibilità e prospettive per la crescita e lo sviluppo che internet e i social network offrono alla cultura, può forse valere la pena fermarsi a riflettere anche su aspetti che forse operano “in sordina”. Aspetti che stimolano risposte rapide, reazioni e che lavorano contro una fruttuosa elaborazione critica del mondo sociale virtuale che ormai è parte integrante delle nostre vite.

Avere ragione. Usare la ragione

Capita spesso di voler avere ragione. Accade nelle discussioni su argomenti vari, in discussioni di coppia, con altri membri familiari e. in generale, in ogni situazione relazionale.

Avere ragione

La ragione può essere definita genericamente come la facoltà di pensare, discernere, stabilire rapporti logici e di porre giudizi. È quindi una facoltà che va “usata”. Tuttavia, spesso riteniamo che la ragione sia qualcosa “da avere”, come se si fosse di fronte a un tribunale che può stabilire una volta per tutte la verità. Avere ragione sembra allora significare aver vinto, aver ridonato dignità alla nostra persona, aver primeggiato. Il vissuto “da tribunale”, tuttavia, prevede una selezione dei dati, sia esterni (ossia le parole dell’interlocutore, l’argomento) sia interni (ossia i nostri vissuti sempre variegati e ambivalenti, fatti di rabbia, ma anche amore).

Certamente, questo si applica solamente in minima parte alle discussioni più “intellettuali”, dove l’esercizio della ragione ha il suo luogo legittimo di applicazione. Nelle relazioni, invece, avere ragione opera un selezione dei fatti (facciamo un’arringa interna, creiamo una linea di difesa e di accusa, cerchiamo prove e indizi). In questo modo, e con questo fine, escludiamo fatti fondamentali per la nostra vita affettiva. Escludiamo i sentimenti implicati e, di fatto, escludiamo l’altro. L’altro viene rappresentato in noi sotto un’unica luce: quella di chi compete per qualcosa. Manca però l’altro per come lo viviamo nella relazione. Manca, nel senso che viene oscurata, la dimensione affettiva: i suoi sentimenti, le sue motivazioni, il passato della relazione, la possibilità di creare un futuro. Alla fine, qualcuno ha “vinto”, qualcuno “ha ragione”. Forse, però, manca qualcosa… sembra che manchi l’uso della ragione.

Avere ragione su se stessi

Questo atteggiamento di selezione dei fatti avviene dentro di noi e coinvolge anche i fatti emotivi che ci riguardano. Capita di trascurare molti dati della nostra vita affettiva, delle nostre motivazioni nel compiere un certo comportamento, nel prendere determinate scelte, nel gestire le relazioni. Spesso sentimenti complessi o emozioni difficili oscurano la nostra disponibilità a comprendere noi stessi e l’altro in modo ampio. Allora cerchiamo spiegazioni, razionalizziamo. Mai con una soddisfazione totale. A guardarle bene, magari “a freddo”, quando è trascorso un po’ di tempo, mostrano delle lacune. “E se avesse voluto dire questo?”, “Forse quando ha detto così intendeva altro…”, “Ero furioso… mi sembrava che ogni sua parola fosse un insulto”, “Cosa sto provando?”, “Questa emozioni oscurano altre emozioni che sto provando?”, “Cosa possono dire di me e della relazione queste emozioni che non sento?”. Questi dubbi sono le premesse per accogliere l’altro e le sue motivazioni e per comprendere meglio le nostre.

Usare la ragione

Se la ragione è definita come la facoltà di pensare, ci possiamo chiedere cosa significhi “pensare”. Possiamo definire il pensare come quell’attività psichica che separa la vita interna da quella esterna e che dona significato in base a questa differenza. Molto di noi è percepito come se fosse parte del mondo esterno. È il nostro modo, inevitabile, di dare significato alla realtà. Riconoscere ciò che è nostro in ciò che è esterno ci permette di avere un quadro più completo della realtà e delle relazioni. Permette di avere dei dati su noi e sull’altro che possono essere elaborati in funzione di una migliore comprensione delle situazioni, anche problematiche che stiamo affrontando.

In questo modo, non si cerca un “colpevole”, una “vittoria”, bensì un chiarimento e le possibili soluzioni. Così pensiero si espande, ossia comprende più sfaccettatture della realtà, più luci e ombre, dettagli e prospettive altrimenti non visti, ma sicuramente attivi. Si pongono domande come: “Di cosa stiamo parlando?”, “Con chi sto parlando?”, “Cosa provo per questa persona?”, “Come mai sento che le sue parole mi feriscono e che devo avere la meglio?”, “Perché sento di dover avere la meglio?”, “Quando mi è capitato di sentirmi così, e con chi?”, “Perché non chiedo di cosa effettivamente si sta parlando?”. Sono alcune domande che possono interrompere un tipo di elaborazione che può portarci ad avere ragione senza usarla. Sono domande che ampliano la visione della realtà di ciò che sta accadendo nella relazione e aiutano a comprendere i nostri bisogni e paure e quelle dell’altro.

Le relazioni si fanno sempre in due. L’altro è però sempre vissuto anche come oggetto delle nostre aspettative, ricordi, relazioni passate. Essere consapevoli di quanto di noi mettiamo nell’altro tutela le nostre relazioni esterne. Ed è un gesto d’amore verso noi stessi.

Cosa è il sostegno psicologico

Cercare un sostegno psicologico è un modo di prendersi cura di sé. La necessità di chiedere aiuto per confrontarsi con quello che sentiamo e che viviamo è un’esigenza molto antica. L’essere umano, durante tutta la sua vita, ha bisogno di incontrarsi con altre menti. È con la relazione empatica con le altre menti che è possibile maturare pensieri e emozioni, creare parole, raccontare le proprie esperienze e dar loro significato.

Nel corso della vita, la mente chiede di avere delle figure che possano accogliere i timori e le paure, ma anche la rabbia, la gioia. Ci sono molte figure che svolgono questa funzione evolutiva, prime fra tutte quelle familiari. Ma anche gli amici, i partner, i professori e chiunque venga sentito come capace di accogliere i nostri bisogni di sostegno.

La nostra mente è forgiata sulle menti degli altri. Cresce con esse.

Lo psicologo può essere una figura di sostegno che offre, tuttavia, un incontro diverso tra menti. Il sostegno si attua sulle potenzialità della persona, nell’ottica di svilupparle. Il sostegno psicologico accoglie i bisogni cercando di chiarirli, di definirli insieme alla persona e di sviluppare in essa gli strumenti di pensiero per farvi fronte. La relazione psicologica si fonda sulla specificità della persona, riconoscendola come unica e irripetibile, con una storia dalla quale emergono certe difficoltà e certi bisogni. Mettendo al centro l’individualità, è possibile non trovare risposte semplici e fornite dall’esterno, ma formulare le domande nate all’interno della persona e sviluppare la capacità di sostegno interna.

Il sostegno psicologico è un dialogo con un’altra mente che mira a creare un dialogo interno costruttivo per appagare i propri bisogni in accordo con le potenzialità e la realtà.

Gestire le emozioni

Gestire le emozioni è uno dei compiti che impegna l’uomo lungo tutto l’arco della sua vita. Le emozioni sono eventi complessi, che scuotono la persona nella sua interezza, talvolta travolgendola, talvolta fornendo quell’energia necessaria al confronto con la situazione. Per questo come gestire le emozioni è una capacità che non si apprende una volta per tutte, ma che deve essere sostenuta, rinforzata e modificata durante tutto il percorso di vita. Le emozioni rimangono, comunque, ciò che “colora” le nostre esperienze e i nostri vissuti, fornendo spessore, profondità e significato.

Cosa sono le emozioni

Le emozioni possono essere definite come delle reazioni a valore adattivo a stimoli interni o ambientali, caratterizzate da peculiari reazioni somatiche e determinate qualità affettive. Sono eventi complessi, che coinvolgono tutta la persona e si manifestano sul piano affettivo, cognitivo, somatico, espressivo e nel comportamento.

Sono reazioni adattive. Il termine “emozione” deriva dal latino “èmotus”, che significa “scuotere”, “smuovere”. Sono disposizioni reattive dell’organismo in risposta all’ambiente naturale e sociale in cui vive. Sono quindi un modo di rapportarsi alle vicende della propria vita che l’uomo ha ereditato dal proprio passato filogenetico. In questo, l’uomo è simile agli animali, specialmente a quelli più vicini nella catena evolutiva, come le scimmie antropomorfe. Per l’essere umano risulta fondamentale la presenza di un “ambiente interno”, psichico, in cui sono rappresentati le proprie relazioni, passate e presenti, e tutti gli oggetti interni significativi. Questi elementi, di solito non consapevoli, influenzano la facilità di esperire certe emozioni e la loro intensità e durata.

Le emozioni possono provocare esperienze piacevoli o spiacevoli, e possono avere una diversa gamma di intensità, dalla più forte e travolgente alla blanda coloritura di un’esperienza.

Differenza tra emozioni, affetti e sentimenti

Le emozioni possono essere definite come stati affettivi di breve durata, con un inizio riconoscibile (che può essere interno o interno) e che comporta modificazioni dell’intero organismo, la presenza di espressioni facciali collegate e dei comportamenti in linea con la causa.

Gli affetti sono una categoria generica, che varia per intensità e qualità e che include le emozioni, non limitandosi a queste.

I sentimenti sono stati affettivi, con un’intensità bassa, durata protratta e che incidono su tutta l’attività psichica e il comportamento. A differenza delle emozioni, non si può trovare una causa precisa per il sentimento. Possono essere considerati lo “sfondo” su cui interpretiamo affettivamente gli eventi, dando loro un tono positivo o negativo.

Emozioni primarie e emozioni secondarie

Sono state identificate 6 emozioni “primarie” dalla cui combinazione deriverebbero le altre emozioni.

Le emozioni “primarie” sono: la rabbia, la tristezza, la sorpresa, la gioia, il disgusto e la paura. Queste emozioni hanno delle modalità di manifestazione piuttosto tipiche, sia per quanto riguarda l’espressione facciale che inducono, sia per i comportamenti che ne scaturiscono. Siamo infatti in grado di riconoscere un volto triste in praticamente ogni luogo, così come abbiamo paura quando riconosciamo nell’altro un comportamento di rabbia. Questo poter riconoscere ciò che l’altro prova ha una forte valenza sociale, sia per la coesione sociale che produce, che per la difesa dell’individuo. Un caro (ma anche un estraneo) triste, ci mette nella condizione di soccorrerlo, cementando così la rete sociale. Un estraneo che mostra rabbia ci fa provare l’emozione della paura, che ci può predisporre a una fuga opportuna e protettiva.

Le emozioni “secondarie” derivano da una combinazione delle emozioni di base. Sono risposte anch’esse piuttosto coerenti in sé e si originano all’interno delle relazioni sociali. Non sono quindi risposte preordinate dall’evoluzione, o lo sono in relazione all’evoluzione sociale di cui l’individuo fa parte. Ne sono esempi: la gelosia, la vergogna, l’invidia, la rassegnazione.

Emozioni difficili

Le emozioni, come detto, colorano a tinte forti la nostra vita e le nostre esperienze, nella piacevolezza e nel dispiacere. Certe volte le emozioni si impongono senza che possiamo arginarle per confrontarci con la situazione. Essendo le emozioni un evento che ha la capacità di coinvolgere tutto l’individuo, anche confondendo le sue capacità di elaborazione razionale, spesso accade che la persona non riesca a comprendere la situazione a pieno e che vi reagisca.

Reagire e agire

Reagire può voler significare che la persona agisce in un modo stereotipato allo stimolo. L’azione è un comportamento dell’organismo sulla base della comprensione della situazione e in linea con determinati obiettivi. Questo comporta una povertà di risposte possibili e, spesso, l’instaurarsi di relazioni difficili. Se durante una discussione col partner la persona sente una minaccia, un’accusa, un’offesa, può reagire a questo evento con rabbia. L’offesa, tuttavia, può essere anche in parte vissuta come tale, ma non esserlo di fatto. La reazione di rabbia comporta per chi la produce e per chi la subisce, una chiusura del dialogo. Non c’è poi modo (salvo i chiarimenti dopo la discussione), di dire che ci si è sentiti feriti, offesi e perché. L’emozione travolge, la persona e il suo interlocutore. La reazione, ovvero l’azione stereotipata e non pensata, può compromettere le relazioni, può mettere a rischio le attività quotidiane della persona. Soprattutto, un’emozione non pensata è fonte di grande angoscia per chi la prova. Non potendo dare parola a quei moti potenti, la persona è preda di sé: vive l’emozione, ma non le da significato. E anche la situazione in cui si origina non assume mai un significato esteso. Rimane una delle tante occasioni in cui ci si è, ad esempio, arrabbiati.

Alternative alla reazione

Un modo per gestire le emozioni è sicuramente quello di saperle riconoscere appena insorgono. Sapere che in un certo momento si è arrabbiati aiuta a dare senso al nostro vissuto. Aiuta a fermare l’ondata emotiva e a chiedersi: “Cosa mi fa arrabbiare?”. Questa domanda apre alla possibilità di indagare la realtà e la situazione per comprendere se la quell’emozione è coerente con quello che sta accadendo.

Dare un nome all’emozione e chiedersi “cosa” la fa provare, apre anche la possibilità di indagare la realtà interna. Come detto, il nostro ambiente psichico è affollato di tutte le persone, le relazioni e le esperienze passate. In esse si trovano le nostre emozioni e le prime situazioni in cui si sono manifestate e rafforzate. Nella nostra storia, quella storia per come l’abbiamo vissuta, è racchiusa la nostra predisposizione a reagire invece che a compiere azioni. Rintracciare la storia delle nostre emozioni, dare un significato a questa storia con molte parole è un modo per trovare l’alternativa alla reazione. È un modo per produrre, lentamente, un cambiamento verso relazioni con le persone, la realtà e se stessi più proficuo e appagante. È sicuramente un dialogo interno molto complesso che può essere ostacolato da timori e dalla forte tendenza umana al mantenimento delle strategie di confronto con se stessi. È un dialogo che può trovare un suo sostegno nello studio dello psicologo. Il dialogo psicologico è proprio un dare parole alle emozioni e dare significato alla storia delle nostre relazioni, passate, presenti e future. Sapere che cosa in noi induce una certa risposta emotiva non pone ovviamente a riparo dal provare una certa emozione. Parlare è compiere un’azione e non essere soggetti a una reazione. Parlare è emozionarsi e depositare l’emozione in una storia che dona significato alla nostra vita.

Il benessere psicologico

È una domanda che può capitare di farsi in molte situazioni. Sicuramente in stati d’animo difficili, pesanti o anche dolorosi che possono verificarsi nelle relazioni o negli affetti, accade di chiedersi che cosa sia il benessere psicologico. Ma anche momenti di tranquillità, appagamento, soddisfazione nel lavoro possono dar luogo alla domanda. Il benessere, come la salute o la normalità, non sono di facile definizione. Sono parole con le quali cerchiamo di descrivere stati interni (ma anche quelli esterni che osserviamo). E in quanto parole, risentono di tutto ciò che la società e la cultura ci hanno dato per descrivere il nostro mondo, interno o esterno che sia. Il benessere psicologico è una faccenda estremamente privata e comprende il nostro stato fisico e i nostri affetti, sia nelle relazioni che nell’ambito del lavoro o della formazione. Ognuno ha il suo modo di sentirsi psicologicamente bene.

Alcuni aspetti del benessere psicologico

Si possono trovare degli “ambiti” che, se appagati, sostengono uno stato psicologico piacevole.

Stato fisico

Sicuramente la condizione fisica è un fattore importantissimo. Poter contare su un corpo funzionale, soggetto a pochi disturbi transitori, permette di potersi muovere nel mondo, fare progetti, andare incontro a situazioni che riteniamo piacevoli e appaganti. Il corpo è uno dei nostri principali riferimenti mentali. Quando non si sente rimane sullo sfondo. Quando qualcosa non va (e può bastare una febbre) praticamente tutta la nostra attenzione viene catturata dallo stato di disagio fisico. Allora vengono dubbi, più o meno pesanti, incertezze, ci sentiamo deboli e meno capaci. L’umore tende a virare a virare verso la tristezza e l’ansia, se la condizione si protrae o si aggrava.

Relazioni e affetti

Un altro aspetto che compone il benessere psicologico è quello relazionale e affettivo. Le nostre relazioni iniziano con noi. Gli affetti iniziano con noi. È di vitale importanza per la nostra psiche avere delle relazioni soddisfacenti. Sin dall’inizio. Essendo il luogo in cui si attivano in massimo grado gli affetti e le emozioni, le relazioni sono anche il luogo in cui la nostra mente viene messa più in gioco. La famiglia è il primo percorso del nostro sviluppo emotivo e relazionale. In essa ci sono i sentimenti più forti, misti, anche contraddittori e dolorosi. Ma è la matrice della nostra capacità di stare bene, di incontrare l’altro e di accoglierlo nel nostro percorso di vita, siano amici o partner. Questo ambito è anche quello in cui si costruisce una capacità a mio avviso fondamentale per il benessere, ossia quella di saper chiedere sostegno e aiuto. Trovo che questa capacità possa contrastare la tendenza, tipica della nostra società, di concepire la persona come “totalmente” autonoma, che deve essere capace di far fronte a tutto e non deve mai abbattersi, in una solitaria strada che se appaga certe tendenze, ne frustra altre ben più profonde.

Lavoro e formazione

L’ambito del lavoro o della formazione (scuole, università, tirocini, ecc.) sono essenziali per la nostra soddisfazione, sia in modo diretto che indiretto. Il ricavato economico del nostro lavoro porta con sé la sensazione di poter progettare la nostra vita, rendendoci economicamente indipendenti, col suo risvolto di sensazione di procedere e crescere. Ma anche il lavoro in sé può essere fonte di enorme soddisfazione. In esso possiamo esprimere le nostre competenze, maturare esperienza, sentirci capaci e arricchiti. È un ambito molto potente, capace di attirare tutte le nostre energie e la nostra attenzione, talvolta a scapito di altri aspetti importanti della nostra vita che richiedono appagamento (come quello relazionale o del benessere fisico). Anche l’appagamento nel lavoro può divenire preda di una certa tendenza sociale a essere “iper- efficienti” e, quindi, “indistruttibili”.

Sostegno per il benessere psicologico

Come detto, il benessere psicologico è una questione privata. È anche una questione che può cambiare nel tempo. È esperienza comune che si attraversino dei periodi in cui la mente si sente serena ad altri in cui qualcosa si affaccia come disturbo, ad altri ancora in cui sembra che tutto l’equilibrio crolli. Quando la condizione fisica e psichica lo consentono, c’è la possibilità di affrontare gli eventi esterni, i conflitti interiori e di sviluppare le proprie capacità. Quando queste condizioni, o in parte o in toto, vengono meno, allora si ha un malessere,ossia una difficoltà a far fronte a ciò che accade.

Come in quei periodi della vita in cui abbiamo avuto bisogno dei genitori o di altri che si prendessero cura di noi, anche nei momenti di malessere psicologico può emergere il bisogno di avere un sostegno.